mercoledì 25 gennaio 2017

Di segni

Gli eventi tutti, piccoli o grandi, di quelli che "casualmente" ogni giorno si producono, sono "segni".
Chi, essendosi messo in viaggio, incontrasse su una strada di montagna sulla cui cima desidera andare, una frana improvvisa che la ostruisce, potrebbe maledire la sua cattiva sorte, e basta.
Questo se il viaggiatore fosse un comune uomo medio.
Se egli fosse invece un "sognatore" (nel senso di "cultore della rêverie" che al termine avrebbe dato Bachelard), capace di generare verità immateriali, ma totalizzanti per la coscienza, "ri-conoscerebbe" la frana come segno.
Il significato che l'evento "frana" adombra (o illumina, piuttosto) è spesso difficile da attribuire...
vuol dire che per giungere sulla cima sarebbe stato meglio scegliere una strada diversa, magari sul versante opposto del monte? o che l'idea di raggiungere la cima è sbagliata e la sorte vuol impedire di commettere un errore? o che si vuol mettere alla prova la volontà reale di raggiungere la meta, testando la determinazione a raggiungerla superando l'ostacolo?
Il Sognatore può, in base al valore che egli attribuisce al segno, "creare" una realtà. Sceltone uno, infatti, egli agirà di conseguenza e determinerà con ciò gli eventi susseguenti della propria vicenda umana.
Questa scelta creatrice è la vera natura del potere della coscienza evoluta, e dell'abilità acquisita di sceglierne gli stati.
Chi infatti sappia che la scelta determina una realtà, può liberamente assumersi la responsabilità di crearla a suo piacimento; chi sceglie casualmente, al contrario, determina una casualità incontrollabile e subisce la propria vita, quando avrebbe potuto crearla, essendone padrone.
Tutto questo è poco detto, e per niente insegnato; o meglio, rivelato.
Ma questo è un vero Lavoro.

Tortuosità


domenica 22 gennaio 2017

Predicare nel deserto

Il predicatore nel deserto non è un folle, ma un tale consapevole che la sua parola ha possibilità creatrici e non è un semplice suono il cui fine è essere raccolto da orecchie umane, né una esortazione che egli spera venga messa in atto da qualcuno dotato di particolare buona volontà.
Predicare nel deserto è emettere una vibrazione nell'unico luogo in cui, non essendoci interferenze, esso possa concretizzarsi in un "oggetto", ovvero in un una "manifestazione": questo luogo è il vuoto.
Il predicatore nel deserto cerca dunque uno spazio vuoto, deserto, capace di generare eco e amplificazioni.
Il passante, che per caso e non mai volontariamente, fosse costretto, essendosi smarrito, a passare per questo deserto, penserebbe che stia parlando da solo, inutilmente; e non presterebbe orecchio a quanto sta dicendo, presumendo che si tratti del delirio di un pazzo. Ma un pazzo si addolorerebbe per il fatto che nessuno lo ascolti; il predicatore da deserto professionista, invece,  vuole che nessuno lo ascolti. Talvolta è persino infastidito se qualcuno si ferma ad ascoltarlo con interesse: non è a questo fine che parla.
Accetta tuttavia che un viandante smarrito possa cogliere, casualmente, la vibrazione della sua parola, purché non la comprenda...

Un deserto affollato

venerdì 30 dicembre 2016

Serietà e tristezza

Le esperienze umane più profonde, quelle che impegnano gli aspetti più radicali dell'Essere, sono esperienze "misteriche", rivelatrici di quel che si è al di là di quello che ci si illude di essere.
In quanto tali, sono esperienze che sgomentano, e spaventano. Sono esperienze "serie".
Tra queste, l'esperienza amorosa sessuale, l'esperienza religiosa vera, e l'esperienza della morte.
Wilhelm Reich ha dimostrato come in chi l'incontro sessuale generi il riso, si manifesti con ciò il terrore della profondità del contatto che questo tipo di rapporto richiede. Contatto profondo con l'altro, che è uguale a contatto profondo con la propria radicale profondità, in un luogo dell'Essere in cui, fatalmente, Io e Tu sono la stessa identità.
Anche l'esperienza religiosa (non necessariamente mistica) determina l'indagine su questo tipo di identità con il Tutto Unitario; altrettanto fa la morte, che mostra come essa affermi - e non neghi - la vita, mostrando però spietatamente all'osservatore l'inutilità effimera della sua esistenza, se non la si consacra a qualcosa di "serio".
Contattare questo luogo prevede il rischio di perdere l'IO a favore del TU, o del TUTTO, o dell'UNO... si può pensare (con la letteratura psicoanalitica) che perdere l'identità possa terrorizzare, ma non è così: ciò che terrorizza è la certezza che, non possedendo un IO, non lo si possa perdere, non lo si possa donare, e con ciò si sia destinati a non poter accedere all'unica esperienza degna dell'aggettivo "umana": quella della propria natura divina. Rivelare a se stessi con totale spietatezza questa orribile verità, senza potersi ulteriormente illudere di possedere una qualche identità, è intollerabile, e quindi si evita accuratamente di farne esperienza.
Tutti coloro che sono terrorizzati dalla possibilità di contattare queste profondità, - diventa allora comprensibile -  confondono con facilità "serietà" e "tristezza", e confondono la leggerezza (che è frutto della serietà), con la superficialità (che è il frutto del disimpegno). Al solito, si finisce sempre - così - per praticare l'opposto di ciò che serve per ottenere il risultato voluto...
La percezione che la vita debba essere una sala giochi, nella quale si punta su qualche numero sperando che esca, così a caso, è certo superficiale e ludica, ma chi la volesse definire "gioiosa" per contrapporla alla "tristezza" che è attribuita a chi vive seriamente, sa bene che sta ingannando se stesso: dietro la maschera, chi spesso ride ed urla la propria gaiezza, si ritira ogni sera a piangere disperatamente il proprio insondabile dolore, e la propria impotenza rabbiosa a lenirlo.
Si sappia che i larghi sorrisi e i giocosi gridolini dichiarano senza tema di dubbio questa terribile verità e ne svelano la... tristezza.

Risate di gioia


martedì 13 dicembre 2016

Grazia di Dio

Fino a qualche decennio fa si chiamava "grazia di Dio" il cibo, in particolare il pane, e, per estensione, ogni bene che fosse concesso a un uomo.
Questo modo arcaico di concepire il benessere terreno condusse a ritenere che la ricchezza di qualcuno fosse il segno della particolare benevolenza divina nei suoi confronti e di conseguenza della sua santità.
Ciò giustificò l'accumularsi di beni nelle casse di principi, re, cardinali e papi. Ciò, nonostante vi fosse la predicazione della povertà come bene in sé, capace di aprire le porte del Regno dei Cieli, mentre al ricco risultava difficile passare attraverso la cruna del famoso ago.
Questa contraddizione non sembra risolvibile.
Ma, stante che il Padre Nostro è, per diversi motivi, la preghiera che più di ogni altra esprime la condizione umana (al di là di ogni convinzione religiosa), occorre dire che la tradizione ufficiale che i fedeli recitano, chiede il "pane quotidiano", mentre la versione originaria in aramaico, tradotta alla lettera chiederebbe "il pane per il nostro bisogno oggi"; questa autentica versione sottolinea la precarietà della sussistenza umana e richiede non la ricchezza stabile e consolidata, ma la grazia di sfamarsi giorno dopo giorno, vivendo dunque giorno per giorno.

Dunque, a questa lettura, la "grazia di Dio" non è la ricchezza, né la stabilità di essa, né tanto meno il suo accrescimento costante, ma la precarietà, la possibilità di navigare sulle difficoltà senza esserne, in modo miracoloso, sommersi, e quindi una percezione sacra della vita quotidiana.
Oggi questa situazione esistenziale si è imposta di nuovo. Che piaccia o no (e non piace!), è così.
Si noti come la richiesta di stabilità economica è richiesta da più parti perché è la sola capace di "far ripartire i consumi", unica cosa - questa - che sembra interessare a tutti (consumatori e consumati) e che viene scambiata come "ripresa economica e sviluppo". Ma l'esaurimento delle risorse  che hanno sostenuto questa forma di visione della funzione dell'uomo, la rende ormai inattuabile.
Il ben-essere deve essere ripensato e l'uomo è costretto a ristrutturarsi nella sua interezza, perché non può più essere quello è per la biofisica, e cioè un "sistema dissipativo".




venerdì 9 dicembre 2016

Prescrizioni

La velocità di un uomo in corsa "tranquilla" è di 10 Km/ora.
A un tale fu prescritto dal medico di correre per un'ora al giorno, per la salute del suo cuore.
A un altro, lo stesso medico e per lo stesso motivo, consigliò di correre per dieci chilometri al giorno.
Il primo corse molto lentamente per consumare meno energie.
Il secondo corse molto velocemente per risparmiare più tempo.
Sopraffatti il primo dalla propria pigrizia, e il secondo dalla propria ansia, nessuno dei due percorse 10 chilometri in un'ora.
Il primo peggiorò la sua pigrizia, il secondo la sua ansia.
Nessuno dei due migliorò le condizioni del suo cuore.


Jogging per principianti

martedì 6 dicembre 2016

Coscienza ardente

Tempo addietro avevo proposto una "meditazione del fuoco".
Se si osserva un fuoco nel camino, non è possibile alla mente distinguere tra il combusto e la fiamma, perché ciò che chiamiamo "fuoco" è una cosa sola, l'unità dei due, la fusione di ciò che del fuoco è causa con ciò che ne è l'effetto.
Il fuoco è una buona metafora dell'Essere Umano.
A ognuno è consentito di porre la propria coscienza (cioè il riconoscimento della propria identità come "io sono") nel fuoco stesso come unità di legna e fiamma, o nella legna, o nella fiamma sola.
Si osserva come queste due ultime soluzioni siano le più adottate, in quanto - crediamo - sono quelle che sostengono la dualità e la parzialità, le stesse cose che sostengono la coppia, la famiglia, e la ricerca della propria metà della mela. Retaggi della visione platonica che ha imbevuto la cultura occidentale, e che producono la disperante sensazione di mancanza che Platone riteneva appartenente alla natura umana.
Ma se ci si sente legna, ci si sente consumare e divorare dalle fiamme senza altra ragione di vivere che morire immolandosi per far vivere la fiamma; e se ci si sente fiamma, ci si sente consumatori, divoratori di ogni cosa organica al fine di sostenere la propria febbrile sopravvivenza. Entrambi atteggiamenti che - ripetiamo - sono i più comunemente riscontrabili nel condurre le esistenze.
La percezione dell'Unità dell'Essere Umano, del proprio essere umani, è quella di chi sostiene il proprio calore, il proprio ardore radiante con la propria stessa natura organica; e si nutre di nient'altro che di se stesso, producendo con la propria vita unitaria ed unificata, ciò di cui ogni inverno ha bisogno: la luce e il calore.
La prossima volta che con serietà ci si chiederà come progettare domani (invece che come conservare ieri sperando che si prolunghi fino a diventare oggi), sarà il caso che ci si decida a porre la coscienza dell'uomo in luoghi diversi dalle sue parzialità. E questo lo si fa individualmente e senza possibilità di delega ad altri... perché è oggi disponibile una natura umana diversa da quella che descriveva Platone, se la si volesse adottare...

giovedì 24 novembre 2016

Le Presenze

Qualcosa si mosse nel buio. Non la vide, ma percepì l'alito d'aria che quel movimento doveva aver provocato. Poi ancora, altri aliti, altri movimenti.
Non vedeva, ma era impossibile capire se ciò dipendesse dalla mancanza di luce o da una sua improvvisa cecità. Capì che, per "vedere" le Presenze, avrebbe dovuto istantaneamente imparare a vedere nel buio. No, non proprio: piuttosto avrebbe dovuto vedere il buio.
Si disse che doveva essere un po' come strizzare acqua da un panno bagnato: si vede il panno e non l'acqua che contiene, almeno finché non lo si strizza. Così, doveva strizzare la luce dal buio e usarla per vederlo. Doveva farla colare dal nero, e raccoglierla negli occhi del proprio cuore, perché gli era diventato chiaro (chiaro nel buio! era già qualcosa) che vedere nel luogo in cui era non era una funzione degli occhi, ma del cuore. Doveva aprirlo, e lasciarvi colare la luce che riusciva ad estrarre strizzando il nero. Così avrebbe visto.
Non era un vedere, quello; era il materializzarsi nel cuore delle Presenze, e il riconoscerle in quanto Presenze in sé, nel proprio stesso centro pulsante. Era il riconoscimento di una permanenza finora ignota. Non si vedono la gioia, l'amore o la tristezza; ma la loro presenza è qualcosa di toppo forte per potersene dimenticare. Ecco, il ricordo... una presenza così permanente e forte non permette dimenticanze; è - per così dire - sempre sotto gli occhi.
Li chiuse, non servivano. E guardò: c'era qualcosa nel cuore, che pesava e nel peso addolorava leggermente, come uno struggimento tenero che interminabilmente scioglieva ogni cosa pesante di materia; scioglieva anche l'IO, quel punto di riferimento che fa dire Io sono e che sembrava scorrere via.
Via... le Presenze producevano la sua assenza, e fortificavano la loro Presenza.
E poi la Luce, abbagliante negli occhi chiusi e stanchi, e nel cuore, come un lampo veloce, una sopravvenuta ulteriore cecità.
Presenza ed Assenza. Non c'era più, e c'era come non c'era mai stato; c'era la Presenza stessa al suo posto, e non c'era più perché lui, il suo cuore, il luogo dove materializzarsi, s'era dissolto, sciolto nella dolcezza.
Tutto questo era incomprensibile, finalmente incomprensibile; era visibile al cieco, finalmente rivelato; era impossibile da dirsi, e così tacque, non se lo raccontò.
Una voce, però, sussurrò qualcosa dietro di lui, nel buio. Diceva "Ho sentito un alito, come un movimento d'aria... ho come la sensazione che qui ci sia qualcuno di invisibile, una Presenza..."