martedì 31 gennaio 2017

Fare da grande

Ai bambini si chiede, fatalmente: "Che cosa vuoi fare da grande?". E si ricevono risposte, di solito, assai improbabili.
Crescendo, quel bambino sceglierà dei modelli e il suo intento, il suo voler fare, diventerà il suo voler essere.
Più avanti, quando farà ciò che sarà costretto a fare e sarà quel che sarà costretto a non essere, non gli resterà altro che stabilire ciò che vorrà sembrare.
Quindi comincerà a fare cose che gli consentiranno di fingere con se stesso di essere quel che si sforzerà di sembrare agli altri.
L'inganno è compiuto, e la condanna alla menzogna perenne è così comminata: questa pena, per un reato mai compiuto, si chiama "personalità", o "falso Io", o "ideale dell'Io": è un tiranno che non consente altro che di sembrare ed ingannarsi, perché ogni tentativo di essere quel che si è sarebbe un tradimento verso le aspettative degli altri, ai quali si apparirebbe diversi, tradendo le loro aspettative. La punizione? "Mi hai deluso, allora non ti amo più!".

In questa prigione resta impossibile dare risposta a una domanda che ci si smette allora di fare: chi sono? Perché la risposta a questa domanda potrebbe essere data solo a posteriori, quando si fosse diventati ciò che si doveva essere, e lo si constatasse.
Essere, infatti, non è cosa che può piegarsi al volere, ma è la progressiva manifestazione di quel che si è fin dall'origine, e che la vita dovrebbe consentire di attuare.
Ma non si è mai diventati altro che quello che si voleva sembrare. Si muore non avendo mai potuto scoprire chi si fosse realmente.
E questa non è una condizione definibile "umana". Umana è solo la ricerca totale della propria Essenza.

Un'Essenza speciale


sabato 28 gennaio 2017

Tapis roulant

Un grande Maestro disse una volta che sulla Via (spirituale) esistono i cercatori e i trovatori.
A suo tempo, scherzai dicendo che, poiché una delle due condizioni esclude l'altra, ciò significa che nessun cercatore abbia mai trovato.
E questo è terribilmente vero.
Chi cerca infatti ha inevitabilmente delle aspettative e dei preconcetti, tali per cui dichiarerà di aver trovato solo quando avrà incontrato quello che si aspettava di trovare.
Viceversa, la Via spirituale è la Via dell'inaspettato, dell'inusuale, di ciò che mai ci si sarebbe potuti immaginare, e stravolge ogni tranquilla aspettativa. Sconvolge, modifica, trasforma, crea (plasma) chiunque vi si trovi, inaspettatamente, sopra.
La Via spirituale, più che un faticoso percorso simile al Cammino di Santiago, è un tapis roulant, che trascina chiunque vi metta il piedi sopra, là dove essa conduce: che non è mai il luogo pacifico dei mari del sud in cui il cercatore avrebbe voluto prendersi una vacanza da se stesso.
Dunque non vi è alcuno che, potendo dichiarare di aver trovato la Via o il maestro, lo abbia trovato davvero. Ma vi sono alcuni che, non avendo cercato mai, ma avendo solo coltivato un'aspettativa vaga e confusa di incontrare l'inaspettato, sono stati trovati. Non ne gioiscono particolarmente, né lo dichiarano con orgoglio vanitoso; ne prendono atto e si mettono al servizio.
Il trovatore, al dunque, è colui che viene trovato. E chiunque dice di aver trovato, si è perso.

Un tappeto... volante?


venerdì 27 gennaio 2017

Ancora disegni

L'attività creativa non è un'attività immaginativa: è piuttosto un'attività "sacra".
La creazione è una individuazione. Chi fondò Roma lo fece tracciando un solco che ne delimitasse i confini; e gli animali delimitano il loro territorio marcandolo con il loro odore.
Questo delimitare è un trarre da un indistinto, significato questo che è, etimologicamente, quello del sacer facere, rendere sacro o sacrificare.
O è un agglomerare in una forma ciò che è caotico e indifferenziato: il fango indistinto viene modellato in uomo.
Un disegno è un progetto (in inglese design è la parola per progetto), la delimitazione di una forma, un trarre dall'indistinto, dunque un distinguere, dunque un rendere sacro.
L'artista in preda ai furori della sua creatività è ispirato, come si suol dire: un folle in estasi.
Perché?  perché la sua follia è quella di creare la vita.
Il vero artista non accetta la limitazione del riprodurre la vita, egli la vuol creare; non avendo tra le mani che la propria vita, della quale soltanto fare quel che vuole, egli la deve creare.
Per farlo deve procedere mediante una individuazione, deve trarre se stesso fuori dall'indistinto, deve formarsi in un sacrificio.
Il vero, grande gesto creativo, sacro, totalmente artistico è la Vita, la cui caratteristica è di non poter essere mai fermata in un attimo che serva per osservarla senza ucciderla.
La sola vera opera d'arte, il solo vero Lavoro dunque, è l'artista vivo che si fa Uomo Vivente.
Il resto è rappresentazione.

L'Archetipo della Grande Madre: una sacra rappresentazione


mercoledì 25 gennaio 2017

Di segni

Gli eventi tutti, piccoli o grandi, di quelli che "casualmente" ogni giorno si producono, sono "segni".
Chi, essendosi messo in viaggio, incontrasse su una strada di montagna sulla cui cima desidera andare, una frana improvvisa che la ostruisce, potrebbe maledire la sua cattiva sorte, e basta.
Questo se il viaggiatore fosse un comune uomo medio.
Se egli fosse invece un "sognatore" (nel senso di "cultore della rêverie" che al termine avrebbe dato Bachelard), capace di generare verità immateriali, ma totalizzanti per la coscienza, "ri-conoscerebbe" la frana come segno.
Il significato che l'evento "frana" adombra (o illumina, piuttosto) è spesso difficile da attribuire...
vuol dire che per giungere sulla cima sarebbe stato meglio scegliere una strada diversa, magari sul versante opposto del monte? o che l'idea di raggiungere la cima è sbagliata e la sorte vuol impedire di commettere un errore? o che si vuol mettere alla prova la volontà reale di raggiungere la meta, testando la determinazione a raggiungerla superando l'ostacolo?
Il Sognatore può, in base al valore che egli attribuisce al segno, "creare" una realtà. Sceltone uno, infatti, egli agirà di conseguenza e determinerà con ciò gli eventi susseguenti della propria vicenda umana.
Questa scelta creatrice è la vera natura del potere della coscienza evoluta, e dell'abilità acquisita di sceglierne gli stati.
Chi infatti sappia che la scelta determina una realtà, può liberamente assumersi la responsabilità di crearla a suo piacimento; chi sceglie casualmente, al contrario, determina una casualità incontrollabile e subisce la propria vita, quando avrebbe potuto crearla, essendone padrone.
Tutto questo è poco detto, e per niente insegnato; o meglio, rivelato.
Ma questo è un vero Lavoro.

Tortuosità


domenica 22 gennaio 2017

Predicare nel deserto

Il predicatore nel deserto non è un folle, ma un tale consapevole che la sua parola ha possibilità creatrici e non è un semplice suono il cui fine è essere raccolto da orecchie umane, né una esortazione che egli spera venga messa in atto da qualcuno dotato di particolare buona volontà.
Predicare nel deserto è emettere una vibrazione nell'unico luogo in cui, non essendoci interferenze, esso possa concretizzarsi in un "oggetto", ovvero in un una "manifestazione": questo luogo è il vuoto.
Il predicatore nel deserto cerca dunque uno spazio vuoto, deserto, capace di generare eco e amplificazioni.
Il passante, che per caso e non mai volontariamente, fosse costretto, essendosi smarrito, a passare per questo deserto, penserebbe che stia parlando da solo, inutilmente; e non presterebbe orecchio a quanto sta dicendo, presumendo che si tratti del delirio di un pazzo. Ma un pazzo si addolorerebbe per il fatto che nessuno lo ascolti; il predicatore da deserto professionista, invece,  vuole che nessuno lo ascolti. Talvolta è persino infastidito se qualcuno si ferma ad ascoltarlo con interesse: non è a questo fine che parla.
Accetta tuttavia che un viandante smarrito possa cogliere, casualmente, la vibrazione della sua parola, purché non la comprenda...

Un deserto affollato

venerdì 30 dicembre 2016

Serietà e tristezza

Le esperienze umane più profonde, quelle che impegnano gli aspetti più radicali dell'Essere, sono esperienze "misteriche", rivelatrici di quel che si è al di là di quello che ci si illude di essere.
In quanto tali, sono esperienze che sgomentano, e spaventano. Sono esperienze "serie".
Tra queste, l'esperienza amorosa sessuale, l'esperienza religiosa vera, e l'esperienza della morte.
Wilhelm Reich ha dimostrato come in chi l'incontro sessuale generi il riso, si manifesti con ciò il terrore della profondità del contatto che questo tipo di rapporto richiede. Contatto profondo con l'altro, che è uguale a contatto profondo con la propria radicale profondità, in un luogo dell'Essere in cui, fatalmente, Io e Tu sono la stessa identità.
Anche l'esperienza religiosa (non necessariamente mistica) determina l'indagine su questo tipo di identità con il Tutto Unitario; altrettanto fa la morte, che mostra come essa affermi - e non neghi - la vita, mostrando però spietatamente all'osservatore l'inutilità effimera della sua esistenza, se non la si consacra a qualcosa di "serio".
Contattare questo luogo prevede il rischio di perdere l'IO a favore del TU, o del TUTTO, o dell'UNO... si può pensare (con la letteratura psicoanalitica) che perdere l'identità possa terrorizzare, ma non è così: ciò che terrorizza è la certezza che, non possedendo un IO, non lo si possa perdere, non lo si possa donare, e con ciò si sia destinati a non poter accedere all'unica esperienza degna dell'aggettivo "umana": quella della propria natura divina. Rivelare a se stessi con totale spietatezza questa orribile verità, senza potersi ulteriormente illudere di possedere una qualche identità, è intollerabile, e quindi si evita accuratamente di farne esperienza.
Tutti coloro che sono terrorizzati dalla possibilità di contattare queste profondità, - diventa allora comprensibile -  confondono con facilità "serietà" e "tristezza", e confondono la leggerezza (che è frutto della serietà), con la superficialità (che è il frutto del disimpegno). Al solito, si finisce sempre - così - per praticare l'opposto di ciò che serve per ottenere il risultato voluto...
La percezione che la vita debba essere una sala giochi, nella quale si punta su qualche numero sperando che esca, così a caso, è certo superficiale e ludica, ma chi la volesse definire "gioiosa" per contrapporla alla "tristezza" che è attribuita a chi vive seriamente, sa bene che sta ingannando se stesso: dietro la maschera, chi spesso ride ed urla la propria gaiezza, si ritira ogni sera a piangere disperatamente il proprio insondabile dolore, e la propria impotenza rabbiosa a lenirlo.
Si sappia che i larghi sorrisi e i giocosi gridolini dichiarano senza tema di dubbio questa terribile verità e ne svelano la... tristezza.

Risate di gioia


martedì 13 dicembre 2016

Grazia di Dio

Fino a qualche decennio fa si chiamava "grazia di Dio" il cibo, in particolare il pane, e, per estensione, ogni bene che fosse concesso a un uomo.
Questo modo arcaico di concepire il benessere terreno condusse a ritenere che la ricchezza di qualcuno fosse il segno della particolare benevolenza divina nei suoi confronti e di conseguenza della sua santità.
Ciò giustificò l'accumularsi di beni nelle casse di principi, re, cardinali e papi. Ciò, nonostante vi fosse la predicazione della povertà come bene in sé, capace di aprire le porte del Regno dei Cieli, mentre al ricco risultava difficile passare attraverso la cruna del famoso ago.
Questa contraddizione non sembra risolvibile.
Ma, stante che il Padre Nostro è, per diversi motivi, la preghiera che più di ogni altra esprime la condizione umana (al di là di ogni convinzione religiosa), occorre dire che la tradizione ufficiale che i fedeli recitano, chiede il "pane quotidiano", mentre la versione originaria in aramaico, tradotta alla lettera chiederebbe "il pane per il nostro bisogno oggi"; questa autentica versione sottolinea la precarietà della sussistenza umana e richiede non la ricchezza stabile e consolidata, ma la grazia di sfamarsi giorno dopo giorno, vivendo dunque giorno per giorno.

Dunque, a questa lettura, la "grazia di Dio" non è la ricchezza, né la stabilità di essa, né tanto meno il suo accrescimento costante, ma la precarietà, la possibilità di navigare sulle difficoltà senza esserne, in modo miracoloso, sommersi, e quindi una percezione sacra della vita quotidiana.
Oggi questa situazione esistenziale si è imposta di nuovo. Che piaccia o no (e non piace!), è così.
Si noti come la richiesta di stabilità economica è richiesta da più parti perché è la sola capace di "far ripartire i consumi", unica cosa - questa - che sembra interessare a tutti (consumatori e consumati) e che viene scambiata come "ripresa economica e sviluppo". Ma l'esaurimento delle risorse  che hanno sostenuto questa forma di visione della funzione dell'uomo, la rende ormai inattuabile.
Il ben-essere deve essere ripensato e l'uomo è costretto a ristrutturarsi nella sua interezza, perché non può più essere quello è per la biofisica, e cioè un "sistema dissipativo".