martedì 11 aprile 2017

Sulla paura di essere "altro"

Quando si propone ad una persona di intraprendere un così detto "percorso spirituale" si incontrano sempre smarrimento e paura. La si può leggere negli occhi di chi riceve questa proposta; è anzi da considerare un "segno" la reazione che se ne ricava; perché - invece - a qualcuno, molto raramente, brillano gli occhi mentre è percepibile in lui un palpito del cuore simile a un battito d'ali.
Chi ha paura è colui che ha costruito faticosamente un modello che chiama IO, o "me"; tanto faticosamente che - pur sapendo oscuramente che non si tratta che di un simulacro - non intende smantellarlo perché teme il vuoto che lascerebbe e la fatica immane che costituirebbe il doverne ricostruire un altro, nuovo; e poi fondato sul nulla, sull'assenza di ogni vera entità riconoscibile come IO. Costui sa di "non essere", e venir costretto a constatarlo senza possibilità di rifugiarsi nel proprio simulacro è abbastanza da terrorizzarlo.
Ora, intraprendere un così detto "percorso spirituale" consiste propriamente nell'indagare sulla propria, vera, natura. E ciò, in chi ha una percezione oscura del vuoto che c'è sotto il simulacro non è accettabile. Questo livello di percezione "oscura" è ben definito sub-conscio.
D'altronde in diverse occasioni ho cercato di far notare come la diffusione di questo sentimento di smarrimento sia alla base della dilagante psicosi, della paranoia che la descrive e dell'ossessione e compulsione che tentano di coprirla o compensarla.
Il mondo del sub-conscio è - riguardo alla descrizione del mondo psichico che ne fa la psicoanalisi - un mondo sotterraneo, e descrive quindi una sub-realtà. Non è quindi ingiustificato dichiarare che tutto ciò che questo mendo descrive come "reale" è invece "surreale", non meno di certi dipinti di Dalì dai quali riceviamo lo stesso senso di smarrimento che - pure - il subconsio restituisce a certi che indaghino sulla natura della propria individualità.
Ce n'è abbastanza per giustificare l'orrore che la proposta di intraprendere una seria ricerca spirituale comporta in questi. C'è inoltre da dire che il simulacro, nel suo significato originario,
"Un simulacro designa un'apparenza che non rinvia ad alcuna realtà sotto-giacente, e pretende di valere per quella stessa realtà. La parola deriva dal latino simulacrum, statua, figura, e indicava originariamente l'immagine o la rappresentazione di una divinità, in special modo nelle celle dei templi, oggetto di culto nell'antichità. (Wikipedia)"
ha una forte valenza religiosa, e quindi se è il simulacro a dover essere messo in questione, non ci si può stupire se proprio la spiritualità sia il più temuto dei banchi di prova. Ho visto persone fare gesti apotropaici, a scacciare il ... maligno, quando gli si prospetta di vedere un po' di luce nei propri personali sotterranei.
Ma poi c'è colui al quale brillano gli occhi, ed è quello che lotta con se stesso per rovesciarsi come un calzino, in modo che quello che è interno, interiore (si direbbe giustamente esoterico) possa emergere ed essere reso visibile; costui sa (non oscuramente, ma luminosamente) nel proprio sovra-conscio (che è quella parte di coscienza che un vero essere umano possiede in potenza, per natura, ma che non sa usare), che la parte di sé a se stesso invisibile è la parte più bella, più luminosa e più esaltante da trovare. Costui è stufo di simulacri, non vuole immagini, né di sé né di altri, più o meno invisibili: egli vuole possedere la sua propria essenza e natura, quella vera.
Costui non ha paura di essere "altro", sa di essere Altro e l'unica sua paura è di non avere il tempo di rivelarselo e rivelarlo.

Dalì, "La persistenza della memoria" [di non essere?]





venerdì 7 aprile 2017

Doveri coniugali

Un tale monaco, che praticava da anni sotto la direzione di un illustre maestro spirituale e che si era sempre dimostrato molto attento e solerte nell'esecuzione dei compiti che gli venivano affidati, giunto ad una età matura passata quasi interamente in preghiera, sentì bussare un giorno alla sua cella.
Aprì, e trovò un novizio che, dopo un breve inchino (omaggio alla sua anzianità), ma con il sorriso sulle labbra (omaggio alla propria giovanile arroganza) gli comunicò che il maestro gli ordinava di rendere conto, alla fine di ogni mese, di ogni volta che avesse mancato alla sua preghiera giornaliera; e che doveva dare questa comunicazione a un altro novizio, arrivato da tanto poco che il monaco non lo conosceva nemmeno.
Il monaco chinò il capo e tacque, ma provò una forte ribellione e una rabbia quasi incontenibile. Ma la lunga pratica del silenzio e della pazienza ebbero il sopravvento, e si concesse qualche tempo di meditazione prima di esprimere le sue emozioni.
Il giorno dopo, uscito nel chiostro per le sue orazioni (che era uso fare passeggiando assorto in esse) si accorse di uno strano fenomeno: non ricordava più le parole delle preghiere che faceva ogni giorno da decenni. E si disse: "Ecco, il fatto stesso di dover fare ciò che volevo fare, diventa un disturbo e un impedimento." E la sua rabbia aumentò.
Il caso volle (ma il caso, si sa non esiste) che il suo maestro passasse di lì in quel momento di smarrimento, di vuoto mentale, di dimenticanza e di rabbia; il monaco non poté fare a meno di avvicinarsi a lui e con rispetto, ma col tumulto nel cuore, lo apostrofò:
- "Maestro, mi hai fatto ordinare da un novizio di far sapere a uno sconosciuto del mio incontro quotidiano con Dio; è una cosa privata, è una cosa che riguarda solo Lui e me e alla quale, tu lo sai, io non manco mai da anni, perché quella preghiera è il mio conforto, il mio luogo d'incontro col Padre. Perché hai voluto ferirmi? Mi sento come uno sposo che, innamorato perso della sposa, la desidera appassionatamente e ogni notte va da lei per esserne accolto teneramente, e che si vede ordinare di farlo perché si tratta di un dovere coniugale! La dolce tenerezza diventa la fredda obbedienza a un ordine superiore! Un ordine a me, che non ne avevo certo bisogno!"
Il maestro ascoltò con viso serio e attento.
- "Se ciò che vuoi fare con piacere è esattamente ciò che devi fare, perché non sopporti che ti si chieda di renderne conto?"
- "Perché la mia libertà di amare diventa obbligo di amare chi altri vuole, e perde di intensità."
- "E al contrario la tua libertà, quella che il tuo amore quotidiano ha prodotto, non consiste proprio nel fare ciò che ami appassionatamente fare e che, se non lo amassi, dovresti fare per obbligo? La tua libertà è nel tuo amore, e ora lo sai. Chi ama può dimenticare la maniera di dimostrarlo, come tu dimentichi le parole della preghiera, ma se è sincero, prega vivendo ogni momento la sua stessa vita e rimproverandosi per le sue dimenticanze.
Sei libero perché ami, e per quanto riguarda me, puoi lasciare questo luogo e andare a predicare libertà nel mondo."
Il maestro si allontanò, ma - fatti alcuni passi - si voltò e aggiunse: "Ma non dimenticare di notificare le tue dimenticanze al novizio ogni fine mese..."
- Lo farò - rispose il monaco - perché non ho più maestri da ora, ma sono diventato il servitore dei novizi... a loro devo rendere conto!"



giovedì 6 aprile 2017

Under costriction

La terribile notizia della ragazza anoressica morta di fame, vegliata per giorni dalla madre attonita, e poi da lei messa in un trolley ed abbandonata, è amaro spunto per alcune riflessioni.
Un madre che non riesce a nutrire è una madre annullata: espletata la sua funzione (automatica) di genitrice, fallisce totalmente quella di nutrice. Perché?
Nell'anoressia, chi ne soffre vive un rapporto ambivalente con la madre: se ne accetta il nutrimento (affettivo più che alimentare, certo), lo percepisce come "velenoso", e quindi lo rifiuta; come rifiuta la propria stessa esistenza non riconoscendosi persino nella propria immagine riflessa: nello specchio vede la madre.
E tuttavia, non avendo altro nutrimento che quello tossico, è fatale che l'esito sia letale, per avvelenamento o per fame. Uccidersi è l'unico modo di uccidere la madre e salvarsi da lei.
Questa madre che non si perdona, compie un gesto riparatore: mette la figlia in posizione fetale e la incorpora in un utero simbolico, poi l'abbandona e fugge, spaventata della sua stessa azione.
Non intendo con questo esaminare il fatto con piglio analitico (o peggio psico-analitico), ma con un approccio simbolico, o per meglio dire, analogico.
Se questa madre fosse la metafora di questo mondo, e se l'umanità ne fosse figlia? Se non potessimo ormai scegliere che tra il veleno e la fame? Se la via di fuga unica che riusciamo ad immaginare fosse una regressione all'utero di questa madre, ma solo post mortem? Se l'umanità stesse facendo del tutto per uccidersi al fine di uccidere la madre avvelenatrice con la quale si è identificata finora, non conoscendo altri metodi?
Propongo una riflessione complessiva sulle possibili vie alternative. Se non se ne trovassero, auspico che la riflessione risulti guaritrice e che torni un sano appetito.

PS: in tutto questo, il padre dov'è?


Uno strumento utile per regredire


mercoledì 5 aprile 2017

Piena dis-occupazione

E se tutti quelli che non trovano lavoro e che hanno persino smesso di cercarlo si mettessero a lavorare gratis? Non avrebbero niente da perderci, occuperebbero il tempo che li annoia, sceglierebbero certo qualcosa che a loro piace fare e che sanno fare bene.
Sconvolgerebbero le regole... pensandoci su, forse commetterebbero anche un reato perché lavorando in libertà non avrebbe senso chiedere una licenza o aprire una partita IVA o pagare le tasse, dato che non guadagnano niente... e forse farebbero arrabbiare quelli che per fare lo stesso lavoro chiedono di essere pagati, certo.
Se ricevessero in cambio da qualcuno un piccolo dono, magari delle uova come si faceva una volta, o una gallina, dovrebbero dichiararla al fisco? Chiedere a un commercialista, non lo so.
Di colpo però, una cosa così piccola, semplice e banale sconvolgerebbe ogni regola economica e obbligherebbe a trovare un nuovo modo di stare insieme.
Pensate al disagio di chi deve chiedere una prestazione, che so, una riparazione delle scarpe rotte a uno che non chiede niente in cambio... non sentirebbe il desiderio spontaneo di restituire in qualche modo il favore? e non modificherebbe con ciò la base stessa della relazione umana col ciabattino?
Non sarebbe costretto ad apprezzarne il lavoro come opera umana invece di sentire il diritto di pretendere che il dover pagare gli attribuisce? "Lavoro, guadagno, pago, pretendo!" diceva una volta la macchietta del commendatore meneghino tronfio e benestante. Ma se non devi pagare, non puoi pretendere; con ciò non hai più diritti, e sei costretto ad apprezzare l'opera di un altro come necessaria a te, e apprezzarla come dono spontaneo che ti viene fatto, una benedizione!
E così via... basta divertirsi a considerare le conseguenze di questo gesto rivoluzionario e pericolosissimo per le sorti di questa società: si va molto lontano.
Se non avete niente da fare perché manca il lavoro retribuito (il lavoro in sé, quello vero perché utile, non manca mai, però.), fate gratis il vostro lavoro. Il vostro, non quello che vi pagano e che siete costretti a fare perché è l'unico che pagano, quello che non serve a niente, e a nessuno tranne che a chi vi paga.
Fate gratis il vostro lavoro, ma fatelo in autonomia, non "sotto padrone". Abbiamo i padroni che ci scegliamo, e se smettiamo di eleggerne a tale rango, cominceremo forse a essere padroni di noi stessi.
Ma questo - forse - è un altro discorso.

lunedì 20 marzo 2017

La solitudine dell'escursionista

Chiunque abbia un poco di esperienza di escursioni in montagna, saprà come la dura esperienza consigli di adottare delle apposite tecniche di ascesa.
Zaino (leggero, con l'indispensabile nutrimento e l'acqua) in spalla, un bastone da battere in terra per spaventare i serpenti, dotato un gancio in cima per aggrapparsi a qualche appiglio quando il piede scivolasse. Ma soprattutto, il passo: regolare, non troppo veloce, non troppo lento, ritmato e mai variato.
Lo sguardo fisso verso l'alto (ma avendo una buona visione laterale), sia in senso fisco che in senso metafisico. E si va, avendo in animo una meta. Una delle mie preferite era il Pozzo delle Nevi. Che si trova molto in alto, ma apre una bocca che penetra nelle profondità più inaspettate.
Di solito, l'escursionista ama andare da solo, specie se è nella sua natura; oppure in compagnia di compagni esperti. In montagna, si saluta con cordialità chiunque si incontri, e talvolta capita che con alcuni si vada nella stessa direzione. E allora, il solitario, l'Afrad, trova compagnia silenziosa e confortante.
Capita (a me è capitato) di incontrare degli amici a valle, venuti per una vacanza breve. Un gruppo al quale, parlando, può accadere che si racconti l'intenzione di salire al Pozzo la mattina seguente.
Certo alcuni degli amici diranno: "Ah, veniamo anche noi!", mentre altri diranno: "Ah, io no! sono qui per riposarmi e mangiare bene!".
Il solitario escursionista non sa trarsi d'impaccio, e si impegna ad accompagnare su impervi viottoli i volenterosi, suggerendo loro di attrezzarsi in modo adeguato.
Al mattino presto, all'alba, preso appena il primo caffè, si avanza.
L'escursionista volenteroso e inesperto ha portato la macchina fotografica; si ferma ad osservare i paesaggi con commenti di meraviglia estatica; li indica ai suoi compagni, ne pretende lo stupore. Poi, avanzando scopre un cespuglio di rovi con le more: si ferma a raccoglierne, le offre agli amici, commenta..., in quota si trovano persino i lamponi!  poi, dopo appena un'ora si dice stanco, si deve riposare e bere un po' d'acqua; e un'ora dopo constata quanto l'aria di montagna metta appetito e chiede di fermarsi per mangiare un panino con i salumi del luogo che sono così buoni, specie con quell'aria frizzante...
Poi si guarda intorno soddisfatto dell'esperienza. E una attimo dopo si sgomenta: dov'è finito l'escursionista esperto al quale si era affidato come guida? Fuor di portata di vista e di voce. Ché lui ha proseguito con il suo passo costante, lo sguardo verso l'alto, l'intenzione verso la meta, consapevole che la rottura di ritmo lo avrebbe sfiancato, fisicamente e moralmente, e non  sarebbe mai arrivato al Pozzo. Là dove, solo là, intendeva riposare, mangiare e bere qualcosa, osservare, bearsi del panorama e dell'aria, e della luce, prima del ritorno rilassato e soddisfatto.
Non era uno che si guardava indietro, e lasciava che ognuno scegliesse cosa fosse meglio per sé; così, al Pozzo era giunto solo. Un solitario viandante, come era nella sua natura di Afrad.
Degli altri compagni sapeva che li avrebbe incontrati se fosse tornato a valle lungo lo stesso sentiero, stremati e forse spaventati, ché il tempo passa e all'imbrunire il cammino in montagna è pericoloso. Il buio, lì, giunge improvviso.
Ma sarebbe tornato indietro? Per ogni escursionista solitario vi è - sempre - un'ultima escursione.

L'ingresso naturale del Pozzo della Neve (di uno di loro...)

mercoledì 15 marzo 2017

Reazioni vitali del terzo tipo

Gli antichi dicevano che la vita è la capacità di reagire.
Se fosse possibile "costruire" un organismo come si fa con una macchina, si tratterebbe poi di metterlo in moto, una volta che tutti gli organi fossero compiuti.
Allora si imprimerebbe una forza in un determinato punto attivando una funzione e un automatismo.
Gli organismi, maxime quello umano, sono fondati sulla dualità e - si dice - sull'alternanza delle funzioni.
Dunque imprimendo una forza iniziale di grande potenza su, poniamo, il ramo simpatico del sistema neurovegetativo (quello che sostiene le funzioni vitali oltre la volontarietà), si genererebbe un eccesso in quella polarità della funzione vegetativa complessiva.
Tale eccesso, raggiunto il proprio limite (come alcune macchine hanno il limitatore di velocità, così gli organismo hanno dei sensori di eccesso), cadrebbe precipitosamente avendo innescato la polarità opposta (quella parasimpatica) a compensazione riequilibrante dell'eccesso iniziale.
La crescita della parasimpaticotonia fino all'eccesso, genererebbe di nuovo l'attivazione della polarità opposta, quella simpatica, in funzione equilibrante, e così via.
Questo equilibrio instabile, frutto di alternanza di polarità e della pulsazione che ne deriva, è la vita.
Il meccanismo è un automatismo, la cui durata è quella che è; quella che la forza cinetica di reazione a se stessi consente, e che va progressivamente esaurendosi, in assenza del ripetersi di quell'impulso iniziale che ha generato l'automatismo.
Immaginando invece, (ma solo immaginando ché non è mai stato possibile) che l'impulso possa ripetersi costantemente e che quindi la reazione organica non sia più frutto dell'automatismo insito nel suo funzionamento, ma sia risposta alla forza di una potente impulso esterno, ecco che la vita diventerebbe Vita.
Immaginando questa assurdità, si assisterebbe forse a un superlavoro dell'organismo, che ne muterebbe il metabolismo e potrebbe affaticare alcuni organi deputati alla trasformazione dell'energia in materia e viceversa, come ad esempio cuore e fegato. Ma ciò non sarebbe una malattia, ma una guarigione, o meglio una trasformazione... perché l'organismo che è alimentato dalla Vita non è lo stesso organismo che è alimentato dalla vita meramente organica ed automatica.
L'affaticamento dell'organismo intero, nella sua unità, dovrebbe essere ampiamente lenito (o almeno reso possibile) da un lento adattamento di esso al superlavoro, a una sorta di allenamento.
Quel che ne risulterebbe sarebbe una forma Vivente molto meno legata all'organico, alla carnalità e alla tirannia di essi, un essere davvero libero.

Antica Madre dormiente


sabato 11 marzo 2017

Nova salus

Come mi è capitato di far notare più di una volta, si riscontra sia in ambito psicologico che in ambito medico una ridotta risposta di molti soggetti ai trattamenti.
In alcuni casi ho sentito affermare da operatori sanitari di lunga esperienza che "la gente non guarisce più". E' una sensazione comune a molti clinici con una carriera superiore ai vent'anni.
La ragione è che l'uomo è cambiato, mentre i parametri medici che lo descrivono non si sono ancora adeguati. Esistono degli umani che sono evoluti non tanto nella loro natura organica e quindi somato-psico-energetica, quanto nella modalità funzionale, il che significa metabolica.
Le cure, o gli accorgimenti, o i consigli esperti di ordine salutistico, risultano per quanti si sono incamminati verso la qualità evoluta dell'essere umani, inefficaci e persino, non troppo raramente, nocivi o aggravanti eventuali patologie, perché tendono a farli permanere nella vecchia condizione mentre evolvono! Il che equivale a porre un peso sulla testa di un bambino per impedirgli di crescere troppo... solo perché lo si ritiene patologico e non si vede che la nuova generazione sarà alta mediamente due metri.
Chi voglia, tra i medici e gli psicologi, indagare sulla natura umana per portarle giovamento, si trova dunque a dover decidere quale tipologia di individui intende studiare e conoscere profondamente, perché la vecchia umanità è già ben conosciuta e parametrizzata, e si tratta quindi di stabilire quale approccio le sia più giovevole tra le migliaia disponibili e spesso tra loro in conflitto; mentre la nuova umanità è sconosciuta anche a chi ne fa parte, e quindi genera un ambito di conoscenza del tutto nuovo, il cui approccio è globale (non uso la parola "olistico" per i significati pseudo esoterici o esotici che la cultura gli ha attribuito); globale significa che il dettaglio non è più significativo, l'analisi di esso è del tutto inutile e porta anzi fuori strada; globale significa che la dimensione spirituale dell'uomo (quella vera, non quella sentimentale!) sta prepotentemente entrando a far parte della sua interezza, come il sangue che scorre nelle vene. Questa nuova dimensione non può più essere colta se non con la Conoscenza Globale, che appartiene in nuce all'uomo nuovo, ma è ignota all'uomo vecchio.
Dunque è bene che chi si occupa di salute (degli altri) impari innanzitutto a riconoscere la vera qualità di chi sta curando, se appartenga alla vecchia o alla nuova umanità; e che non tenti ostinatamente (la buona volontà finisce per diventare a volte arroganza) di curare con i vecchi parametri diagnostici e i vecchi strumenti l'uomo nuovo.
E' di recente acquisizione la statistica che vede (almeno in Italia) la drastica riduzione delle nascite e la conseguente aumentata quantità di vecchi: ciò corrisponde al fatto che l'uomo vecchio è, oggi, ancora in netta e drastica, crescente maggioranza: si tratta di quell'umanità che va a terminare senza riprodursi perpetuandosi; mentre l'umanità nuova, nascente emerge da questi flutti oscuri ancora con difficoltà e fatica, in numeri estremamente esigui: ma è questa l'umanità che cresce e si moltiplicherà, ed è bene pore attenzione ad essa e sostenerla nella sua crescita, come si fa con in bambini che gli adulti proteggono con amore.
In alcuni uomini della vecchia specie, il seme dell'uomo nuovo è stato gettato alcuni decenni fa, e potrebbe in questo momento germogliare. Chi ne avesse percezione, farà bene a considerarlo e a considerarsi con occhi nuovi.

Per chi voglia, faremo riferimento a questo nel nostro prossimo incontro del 19 marzo.