sabato 13 maggio 2017

Sulle regole

E' noto che nelle comunità monastiche di ogni genere vi sia qualcosa che si chiama Regola. Spesso scritta e approvata dalle autorità ecclesiastiche, in altri casi essa è, meno formalmente, legata a una sorta di codice di onore che i partecipanti a un conclave stabiliscono consensualmente come strumento attraverso il quale praticare la propria Via e rispettare gli altri compagni che con loro la condividono.
Al di là delle formalità e dei formalismi rituali, e al di là dei regolamenti sociali e polizieschi, questa speciale Regola si fonda sul rispetto di sé, degli altri, e della Cosa che insieme si fa; contrariamente alle leggi poliziesche, non si dovrebbe trovare quindi, tra i liberi contraenti, alcuno che desideri aggirare o addirittura violare tale Regola, per il semplice motivo che - mentre per le leggi poliziesche chi lo fa e viene scoperto (cosa questa non così automatica) viene punito in modo coercitivo e vendicativo - per i violatori della Regola monastica d'onore la pena è l'inutilità di ogni sforzo fatto nella direzione della spiritualità che ci si era ripromessi di raggiungere. Per chi è sincero in questo suo desiderio, è la pena più dura, assoluta e impietosa che si possa ricevere; ed è automatica, nel senso che non richiede di venire scoperti, e quindi non prevede alcuna indagine, né giudici né alcun detective.
In che cosa consiste una Regola, dunque? In alcuni impegni ed accorgimenti, di solito ritmicamente ripetuti, nella costanza, nel dare seguito alla parola data, nell'azione che segue senza fallo l'intenzione dichiarata. Nel rispetto, poi (questo fondamentale) di ogni altro contraente e dell'impegno che questi ha preso. Non vi sono sotterfugi, bugiòle, scuse che tengano. La Regola non è aggirabile né modificabile, né piegabile alle proprie esigenze, una volta che la si sia abbracciata. Farlo è starne fuori, il che equivale a star fuori da quella comunità, che ciò sia apertamente dichiarato da qualcuno, oppure no. I fatti, lo dichiarano.
Se c'è un antico cipresso in un giardino, e vi si pianta accanto un giunco nel desiderio che i due alberi si fondano in una sola creatura (che è in fondo la finalità di una comunità spirituale), è il giunco che deve piegarsi attorno al cipresso, ché il cipresso non può (né deve!) farlo. Chiedere e credere che il cipresso si pieghi attorno al giunco è follia, pretesa assurda, arroganza e totale incomprensione di come stiano di fatto le cose. Cosa fa la Regola? Dice come piegare il giunco attorno al cipresso, ne indica il modo migliore e più rapido e diretto.
Chi comprende questo fatto si pone con questo in una sorta di élite che è fatta di gente d'onore, gente seria, che rispetta se stessa e gli altri, che si muove sicura e senza deviazioni verso l'obiettivo che si è data mentre intorno gli altri si agitano in uno spettacolo grottesco improntato al motto "io speriamo che me la cavo", e lo fanno sperando di non venire scoperti. Persone, queste, che il saggio osserva con un sorriso tuttavia di benevolenza compassionevole, ché di meglio non sanno fare.
Chiedo non molto, chiedo solo che la Regola sia rispettata: quella vera, eterna che nessun parlamento ha mai potuto scrivere. Chiedo di intrattenermi solo con gente d'onore, che liberamente la rispetti senza alcuna deroga, gente di cui possa fidarmi senza dubbio alcuno.


Regola che non si usa più usare


sabato 29 aprile 2017

Del dolore e della pace

La storia di ogni uomo è contrassegnata da episodi dolorosi.
Alcuni sono improvvisi rovesci, drammi istantanei; altri sono sottili, progressivi, incessanti dolori che si mantengono sotto la soglia della sopportabilità e che distruggono (ma inesorabilmente) solo alla lunga.
Nessun uomo maturo può dire di non aver provato, e di non essere stato provato, da uno o più dolori.
Alcuni però si identificano con il proprio dolore, ne fanno un totem, un idolo a cui sacrificare il resto della propria vita e una giustificazione per ogni fallimento o rinuncia presente e a venire.
Altri guardano avanti, come l'escursionista solo: avanza lungo un sentiero pericoloso e irto, avendo sulle spalle lo zaino del proprio dolore. Certo, avanzerebbe più spedito se non portasse pesi, ma, giunto in cima, il contenuto di quella zaino sarà svuotato, conterrà anzi il pasto del riposo (ma come?), e il ritorno sarà leggero.
Il dolore va attraversato, non idolatrato né respinto.
Perché l'umanità di oggi è così intrisa di dolore che dispera di attraversarlo, e richiede una sola cosa: non sentirlo. Si irrigidisce e si ripiega per resistergli meglio; o conduce la propria dolorosa vita come cercando di renderla un anestetico, che alla lunga intossica e aggiunge dolore a dolore. Non si è mai sentito che il dolore anestetizzi dal dolore, a meno che non ce se ne procuri uno più forte. E così molti fanno.
Vi è molto dolore inutilmente procurato, ma il dolore che ha maggior peso e senso è quello che proviene dalla lotta contro se stessi.
Ciò perché, mentre la causa del dolore non è quasi mai permanente, la reazione a tale causa può protrarsi perché la si tiene in vita e la si alimenta, o non si riesce ad allontanarsi da essa. Sono quei fantasmi di cui si dice che non riescano a trovare la luce e rimangano intrappolati tra i vivi.
Chi lotta contro se stesso ha però - lui solo, non l'anestetizzato - una grande possibilità: incontra fatalmente un luogo dell'anima, un punto, in cui si riconosce impotente, o vinto, privo di mezzi per superare se stesso (come potrebbe essere diversamente?). In quel punto egli si arrende, davvero, e si lascia inondare dal dolore contro il quale aveva creduto di combattere. In quel momento può accadere un miracolo, e cioè che il cercatore di pace venga invece trovato.
E il miracolo più grande è che egli si rende conto che il dolore inutile e la ricerca vana di pace, la lotta perduta contro se stesso, sono stati una Necessità per trovare quel punto, e il contrario dell'inutile: sono stati una grande vittoria. E si sente un prescelto, un fortunato.
Purtroppo alcuni di questi possibili fortunati, si fermano un attimo prima di arrendersi, cioè non si arrendono affatto, ma voltano le spalle al dolore rabbiosamente perché ritengono che gli sforzi siano improduttivi. Si attendono "certi" risultati e rifiutano quindi la loro stessa impossibilità di ottenerli, cosa che è invece "il Risultato".
La vittoria è nella sconfitta, ma non lo sapranno mai.


Zaino


domenica 23 aprile 2017

Umanità e Spiritualità

Nella condizione in cui la sola ricchezza posseduta è l'immondizia, cioè tutto quello che si era creduto non servisse e ora ci sommerge, è naturale che alcuni inganni vengano svelati, ed è naturale che si verifichino all'opposto alcune allucinazioni.
Gli scarti della nostra personalità, le parti brutte che non ci piacciono e che nascondiamo persino a noi stessi, sotto lo zerbino dello nostre maschere, diventano le sole che ci contraddistinguono come Me. Le sole risorse.
Queste parti, affiorano e diventano ciò con cui - soltanto -  ci possiamo relazionare con gli altri, avendo esse soffocato e seppellito quelle "belle". Per cui le nostre relazioni divengono belluine, rapaci, predatorie e ferine.
In questa condizione si produce inevitabilmente questa allucinazione: quando l'uomo è ricco di umanità (intesa come un relazionarsi reciproco e consonante, armonico e solidale), allora guarda oltre e si chiede quale sia la spiritualità che gli compete e alla quale possa accedere come dimensione sovra-umana, come cioè egli possa superare se stesso; ma quando l'umanità è assente, è normale che sia proprio l'umanità ad essere la sola sfera cui può aspirare la belva.
Così oggi molti confondono la spiritualità con l'umanità, considerando "spirituale" il buon sentimento che, nell'uomo, lo portava spontaneamente ad aiutare chi soffre o a rialzare chi cade, o l'attitudine contemplativa che ci faceva amare un tramonto o un bambino.
Non è così, occorre saperlo: questo è solo umano.

Bambini al tramonto. Altri, forse, all'alba.


sabato 22 aprile 2017

Immondizia

Nello Sri Lanka, il 15 aprile scorso, una montagna di rifiuti alta 91 metri si è abbattuta su una baraccopoli uccidendo 19 persone.
Il 21 aprile un documentario Rai sulla spazzatura ha illustrato come sia ormai chiara al mondo scientifico l'insostenibilità della produzione di rifiuti, che potrà, a seconda delle interpretazioni dar luogo, entro un centinaio d'anni o due, all'estinzione della razza umana, sepolta, come nello Sri Lanka, dalla propria immondizia. Uno degli scenari possibili è questa estinzione tout court, l'altra è che, come avvenne nel lontano passato della storia del nostro Pianeta, l'inquinamento produca rivoluzioni nel metabolismo stesso della natura. Avvenne che nacque l'ossigeno, uccidendo le primitive forme di vita che non lo tolleravano e che erano nate nella sua assenza, ma ciò produsse la nascita delle specie attuali tra cui l'uomo. Quindi, alcuni scienziati, quelli ottimisti, ritengono che i batteri, capaci di adattarsi rapidamente, alla estinzione dell'umanità, possano generare altre forme di vita più alte ed evolute a partire dalla precedente rovina.
Naturalmente, tra le righe, il documentario trova il modo di far notare come il consumismo (e con esso ogni forma economica e politica che ne deriva o che lo sorregge) si estinguerà avendo portato a morte i consumatori. Chi vive nelle vicinanza delle discariche (una in Ghana in particolare) ha una speranza di vita non superiore ai trent'anni, e i 13nni sono già così avvelenati da aver già prodotto danni organici irreversibili, anche al cervello.
Questo è lo stato dell'umanità che "fa la differenziata", e anche finta di niente.
Ma al di là della cronaca, occorre sempre estrapolare il significato metaforico degli avvenimenti, ovvero il riverbero che essi hanno sulle coscienze individuali: ho dovuto ricevere gli aspri rimbrotti di due coniugi anziani perché avevo tentato di gettare un pezzo di carta nel "loro cassonetto"; e l'affermazione drastica di una vicina che sostiene di avere il diritto di tenere l'immondizia fuor di casa sua mettendola davanti alla mia porta. Nel primo caso si nota un'affezione all'immondizia che, alla fine, si manifesta come l'unica cosa che si ha e quindi l'unica cosa da difendere; nella seconda il tentativo di gettare l'immondizia che si produce (l'uomo è un sistema dissipativo) addosso agli altri nell'illusione pacchiana di essersene liberati.
Cose queste, entrambe, che si mostrano evidenti anche sul piano morale e caratterizzano le relazioni sociali di questa fase terminale dell'umanità. Relazioni ferine, dato che l'umanità (intesa come sentimento di solidarietà umana e di mutuo sostegno) è un ricordo. Se all'Umanità (razza umana) si sottrae l'umanità (solidarietà) si ottiene un prodotto simile al caffè decaffeinato: una cosa che non è più ciò che era, ma che si vende come se lo fosse, e a prezzo maggiorato.

Panorama della Sri Lanka

lunedì 17 aprile 2017

Foci e voci

Un tale, aspirante monaco, aveva passato diversi anni presso un maestro, quando un giorno, avendo ascoltato un discorso di lui e avendone data una interpretazione, ne ebbe un'illuminazione.
Si recò allora dal maestro e gli disse: "Maestro, grazie a te ho improvvisamente e chiaramente compreso che ho bisogno di ritrovare la mia origine, il luogo da dove provengo, e per questo ho deciso di tornare a casa oggi stesso; ti ringrazio per questo e per il grande lavoro che hai fatto su di me."
"Vai pure - rispose il maestro - ma non devi ringraziarmi, perché, se è pur vero che ho fatto un grande e faticoso lavoro su di te, esso non ha prodotto alcun frutto." Girategli le spalle, l'anziano maestro si allontanò con passo stanco.
Il discepolo, sconcertato, si avviò lentamente lungo la strada che l'avrebbe ricondotto a casa.
Per qualche ora, durante il cammino, fu immerso nei suoi pensieri: non riusciva a capire perché il maestro, che avrebbe dovuto - come sperava - rallegrarsi per la sua illuminazione, gli aveva risposto in modo così distaccato e con tale amarezza.
Non sapeva più quanto aveva camminato quando, molto contrito, le forze gli mancarono e si impose di riposare. Era giunto senza accorgersene sulla sponda di un fiume poderoso, che più a monte avrebbe dovuto attraversare.
Si sedette e prese le sue provviste per rifocillarsi, ma il suo sguardo fu catturato dal lento, pacifico e poderoso scivolare del fiume. Vide che scorreva nella direzione opposta a quella che lui, tornando a casa, aveva preso.
"Certo, io torno all'origine e il fiume se ne allontana andando verso il mare. Non può fare altro."
Si addormentò, e sognò il suo maestro.
"Qual è - gli diceva in sogno - l'origine dell'origine?"
Risvegliatosi di colpo, il discepolo comprese: l'origine del fiume non era la fonte, ma il mare, che evaporando dava luogo alla pioggia che alimentava la falda che sgorgava come polla sorgiva e dava origine al fiume... e quindi per andare all'origine vera egli - come faceva irresistibilmente il fiume - avrebbe dovuto andare avanti, non tornare indietro!
Il discepolo si rallegrò della sua intuizione e ringraziò in cuor suo il maestro che non l'aveva abbandonato.
Preso da rinnovato vigore volle tornare da lui e si incamminò..., ma fu fermato da una voce interiore che, irata, gli gridò: "Che fai, torni di nuovo indietro?"

Una foce


domenica 16 aprile 2017

Prìncipi e princìpi

C'era una volta un giovane Principe. Bello e pieno di grazia come lo si può immaginare, egli se ne stava tutto il giorno, e la notte anche, sulla torre d'avorio immerso nei suoi libri.
Non usciva mai, mangiava poco, pensava troppo, non aveva amici.
Il re padre, vedendone il pallore e la malinconia se ne preoccupò e non potendo ottenere le confidenze del figlio che si era ormai ritirato nel proprio isolamento, mandò a chiamare il solito saggio che si era a sua volta rifugiato nella solita caverna sulle montagne, isolandosi non meno del principino.
Costui, il saggio, disse che non aveva voglia di muoversi e che, se proprio era necessario, il principe fosse condotto a lui. Con riluttanza, così si fece.
I due restarono soli nella caverna per tre giorni interi, senza che nessuno potesse avvicinarsi. Poi il principe montò sul suo solito cavallo bianco e cavalcò via.
Dopo qualche giorno, il vecchio saggio, che non aveva detto una sola parola circa la visita del principe, ricevette la visita del re, che, adirato, voleva conoscere l'esito di quel lungo colloquio.
Mentre si preparava il caffè con la moka, e nessuno li disturbava, il vecchio disse al re:
"Tuo figlio è timido, perché è un principe. Il suo lignaggio prevede che egli sia, per natura, colmo di nobiltà, di orgoglio della propria discendenza e delle qualità che contraddistinguono i condottieri, i padri della patria e gli eroi. Egli si è innamorato di una fanciulla che vede dalla torre mentre ricama e canta in una piccola casa del villaggio e che non sa di essere ammirata da lui. Credo si chiami Silvia. Vorrebbe avvicinarsi, ma non è abituato a frequentare persone e il suo stesso amore lo rende timido, perché teme di non poter essere all'altezza delle aspettative della fanciulla che, sebbene sia povera e si consideri indegna di lui, si aspetta però che un principe abbia tutte le nobili qualità che gli si attribuiscono. Dipende dal fatto che tu, o re, hai fatto del tutto per farti conoscere come nobile, saggio, eroico e generoso perché il tuo popolo ti amasse, ti ammirasse, ti venerasse. Da tuo figlio tutti si aspettano che sia della tua stessa stoffa. Chissà poi - azzardò il saggio - se tu lo sei davvero o se l'idea che tutti si sono fatti di te non sia il prodotto di una campagna di comunicazione... Comunque, dal principe ci si aspetta che incarni ogni nobile principio e qualità possibili, e che inoltre sia colmo di quelle specifiche qualità virili che - come hai fatto tu - assicurino figli maschi e dunque una discendenza regale. Dunque, se egli si avvicinasse alla fanciulla con il suo pallore, la sua timidezza, il suo impaccio e il suo tremore, ella ne resterebbe delusa fortemente e persino, egli crede, lo deriderebbe, fino a parlarne con le sue amiche e a diffondere tra il popolo un'idea della famiglia reale opposta a quella che tu hai creato negli anni. Per questo egli si è ritirato e teme di farsi vedere, teme di non essere all'altezza (proprio lui che tutti chiamano "Altezza"!) e di deluderti. Ma l'amore lo divora e ne brucia la carne."
"Ma dov'è ora? -  chiese il re tra il preoccupato e l'adirato -.Non è più tornato a palazzo!".
"Ah, ecco... - rispose esitando il vecchio saggio -, credo sia andato da quella fanciulla che ricama cantando..."
"E...?" ansimò il re.
"Vedi, nei tre giorni che è stato qui ho approfittato della sua predisposizione allo studio per fargli imparare un discorsetto da farle, e penso che abbia dato seguito alle intenzioni che l'ho quasi costretto a dichiarare..."
"Come? Quali?"
"Ecco... il discorso suonava pressappoco così: ti amo, sono pallido, timido, e sebbene mi dicano carino sono poco palestrato, e nient'affatto aderente all'immagine che mio padre ha creato per sé e che penso voglia farmi incarnare. Sono un misero uomo, fragile, emotivo, indeciso, incapace di prendere decisioni e di mantenerle, insicuro; non sono neanche così bello e non so proprio se io sia così virile, anche se - quando penso a te - il desiderio mi divora. Eccomi, questo sono. Ma ho un cavallo bianco, vuoi salirci su e venire via con me?"
"Ha davvero fatto questo stupido discorso a quella ragazza del popolo?"
"Beh, non ne sono tanto sicuro, ma un maniscalco che ha bottega vicino a quella ragazza è venuto a trovarmi ieri per chiedermi un medicamento, e mi ha detto di aver visto il principe bussare alla porta della fanciulla e di averli poi visti andare via insieme sul cavallo bianco..."
"Come? - ansimò ancora il re senza fiato e paonazzo in volto - Dove? Perché...?"
"Mah..., il maniscalco ha bottega proprio tanto vicino e ha colto qualche parola... certo ha dovuto smettere di picchiare sull'incudine, ma l'ha potuta sentire..."
"E cosa...?"
"Sembra che la fanciulla abbia detto: solo un principe, solo un nobile può dichiararsi umilmente un nulla. Solo un forte può dichiararsi debole e rischiare il giudizio. Solo un grande può fingersi piccolo, quando tutti i piccoli non fanno che fingersi grandi. Solo un Uomo può dire ti amo mentre si dichiara indegno di essere amato, perché solo un Uomo Vero ama senza chiedere di essere ricambiato. Se hai un cavallo sei ricco, perché può portarci lontano. Andiamo."
"E dunque?"
"Credo che tuo figlio abbia fondato con la sua regina un regno altrove, dove avrà la sua discendenza, se Dio vorrà, e non la tua."
Al re prese un infarto fatale e non ebbe discendenza. Il suo trono è ancora vacante, se qualcuno vuole il suo regno...

Ai miei scarsi lettori, una buona Pasqua di resurrezione.

Un principe che si vede che è falso


martedì 11 aprile 2017

Sulla paura di essere "altro", parte II

Mi si obietterà che, se avessi ragione, non ci sarebbe qualche milione di fedeli di tutte le religioni ad affollare i luoghi di culto; né devoti talmente ferventi da dar luogo a guerre di religione.
Se avessi ragione, si dirà, la paura della dimensione metafisica e religiosa avrebbe impedito queste adesioni di massa alla fede.
A guardar bene, però, ci si accorge che questo genere di fede non mette in discussione il proprio simulacro, ma anzi gli conferisce stabilità, e conferma che è esso ad essere IO, con una specie di gioco - stavolta - iperrealista.
Questo genere di fede infatti produce un'attenzione alla vita di ogni giorno, dona un senso "alto" - a volte - alle sue follie, giustifica il dolore e il sacrificio, e assicura che viverla onestamente e con sentimenti bonari e amorevoli condurrà a un benessere "altrove"; ma intanto tutto rimanga com'è, a partire da se stessi e da quello che "si crede" di essere.
L'altra forma, invece, impone di scavare dentro di sé alla ricerca della radice del proprio essere e ciò è faticoso, richiede pazienza, disciplina e costanza; dunque rende l'esistenza precaria nella misura in cui la tranquillità non è altro che un equilibrio stabile. Chi si sottopone liberamente a questa ricerca rinuncia all'equilibrio e alla stabilità, non rimanda ad altra vita ciò che può fare subito, si convince presto che non si tratta di ben operare qui per ottenere ricompense, ma che si ha a disposizione un tempo che l'uomo chiama vita per fare quello che gli altri fedeli attendono come un dono o una remunerazione. Farlo, e da sé!
Sanno che si hanno remunerazioni dalla propria stessa opera mentre la si compie, come frutto secondario del lavoro di scavo all'interno di sé alla ricerca del sé altro, mentre gli altri cercano l'altro da sé, che proprio per questo non coinvolge minimamente il sé in sé.
Certo sono scelte, modalità di aderire a una richiesta fondamentale dell'umano di andare oltre; direzioni opposte di ricerca, la cui scelta è determinata da fattori individuali che affondano le proprie radici addirittura nella linea di generazione, quindi nei luoghi e nelle culture, negli avi e nelle ascendenze, nelle condizioni di esistenza che hanno definito la condizione generale di ogni essere.
O forse no, perché forse, quelli che scavano scelgono di farlo prescindendo da queste condizioni, mentre invece - semplicemente - gli altri non ne prescindono. Sì, forse così è più giusto, dato che ogni essere che si incarni in questo mondo subisce pur sempre una prigionia...


Iperrealismo: quando l'imitazione del vero è tale da essere presa per il vero.