lunedì 30 luglio 2018

Narcisismi secondari

E' noto lo sforzo che la psicologia clinica e la psichiatria fanno per codificare alcuni comportamenti umani al fine di stabilire cosa sia patologico oppure no; e facilitare con ciò le diagnosi degli addetti ai lavori sollevandoli dall'onere di usare se stessi come strumenti di risonanza, cosa che - si teme - potrebbe togliere oggettività al giudizio (clinico).
Comunque, ogni patologia appare - da queste classificazioni - come relativa alla sfera relazionale degli individui umani, in quanto le valutazioni si evincono appunto dai comportamenti agiti in quella sfera. Anche l'assenza di relazioni è però considerata patologica, come avviene ad esempio nella catatonia o nell'autismo.
Ma, in generale, ogni nevrosi è una fissazione a un comportamento strategico infantile che si conserva - nell'illusione di mantenere la propria efficacia - anche in età adulta; naturalmente si rivela come una patologia nel momento in cui chi ne soffre rifiuta di rinunciare a quella strategia e di adottarne altre più realistiche ed efficaci.
Tra queste forme infantili una delle più studiate e feconde di riflessioni è il narcisismo. Narcisista è colui che si adopera (a volte seduttivamente mostrandosi disponibile, facendo doni, ostentando reverenza, incensando...) per ottenere il favore e la simpatia di quelli a cui riconosce o attribuisce un'autorità su di sé, al fine di fare le proprie marachelle, certo a priori della benevolenza che lo sottrarrà alla punizione temuta. Così fa il bimbo che con le sue moine evita la sculacciata o il rimprovero dal genitore severo.
Il problema è che, perché questa strategia sia efficace anche in età adulta, bisognerà che il soggetto trovi sempre un qualche genitore severo da manipolare, o lo inventi se non c'è. E che le marachelle consistano in qualcosa che ogni genitore cerca di impedire al figlio: che si faccia del male.
Per cui il narcisista è colui che si fa volutamente del male e cerca di sfuggire alla punizione di chi non gliela vorrebbe infliggere, sia perché non ha questa funzione, sia perché se l'è già inflitta da sé.
Un aspetto rilevante del narcisismo patologico, è l'attaccamento abnorme proprio verso chi rifiuta o insulta o disprezza il soggetto; quanto più anzi egli è umiliato, tanto più si "attacca"... Il narcisista non ammette che non lo si possa amare, e quindi, verso chi non lo ama, ha un accanimento speciale perché desidera ottenere il rovesciamento di questa posizione. Per poi - quando lo ottiene - vendicarsi sadicamente... Schema relazionale, questo, divenuto ormai sociale, nei concetti di competitività, meritocrazia, premio,  fino a - orribile dictu - consenso democratico usato come arma di prevaricazione sui perdenti... etc.
Vi è però una forma narcisistica su cui la psicologia clinica pone la propria attenzione speciale da un paio di decenni, che è quella del ritiro, della sparizione progressiva: il soggetto scompare perché le sue aspirazioni grandiose sono tali da non poter essere dichiarate, e perché ritiene forse di non poterle realizzare o forse che gli siano dovute, ma che non gli vengano riconosciute come - secondo lui - dovrebbe essere.
Come dire che l'umiltà, e "il ritiro nei luoghi segreti che solo i saggi conoscono" non sarebbe altro che una copertura di un egocentrismo patologicamente percepito come grandioso, e non il rifiuto di aderire ad esso, elevatosi ormai a forma sociale di relazione usuale!
Come si vede, l'ansia di classificare giunge al paradosso di definire "patologico" ogni comportamento, e il suo esatto contrario... il che non aiuta certo a capire la complessità umana.
Se però il mondo relazionale non fosse visto orizzontalmente come fatto di relazioni tra uomini, ma fosse percepito verticalmente, come relazione tra l'unicità che ciascuno è ciò che a cui questo essere (solitario ma solo nel senso che si sente uno e finito in sé) può aspirare, realizzando quel che è in forma potenziale, forse il giudizio su ciò che è patologico e ciò che non lo è muterebbe drasticamente. Ma certo dovrebbe mutare la percezione del fine stesso della vita umana, che acquisterebbe una sua peculiarità specifica rispetto al concetto più generico di vita. Dovrebbe cioè verificarsi una salto di coscienza tale da rendere chiaro all'essere umano che egli è uscito dai processi naturali costrittivi, sebbene, come i molti alberi mistici, egli affondi proprio in essi le proprie radici.
Se la valutazione della maturità sopraggiunta di tale percezione fosse il discrimine non tra la patologia e la sanità, ma tra due caratteristiche (o... razze) umane distinte, si potrebbe applicare il DSM a quanti non si attribuiscono capacità evolutive superiori; e altri parametri a chi sa di averle e intende coltivarle... questi secondi, certo, al DSM risulterebbero gravemente malati...😉


venerdì 27 luglio 2018

Reificazione

La parola "reificazione", che vuol dire  semplicemente "trasformazione in cosa", assume però diversi significati e valori nei diversi contesti culturali in cui viene usata, ed ha sempre un accento negativo.
Nel significato più letterario essa descrive uno stato vicino all'annichilimento con tracce di disperato esistenzialismo, descritto come: "una condizione psicoaffettiva di totale mancanza di empatia, di completa indifferenza e rassegnazione, che spinge coloro che ne sono affetti a trattare se stessi e gli altri come se fossero cose o, comunque, entità prive di qualsiasi significato non materiale".
Si comprende come usare l'espressione "esserne affetti" lasci trapelare l'idea che si tratti di una grave malattia: che consiste forse nel pensare che nessuno abbia altro valore che quello materiale? Se è così, è una malattia sociale, endemica...
Ma qui, chi scrive, vorrebbe riconsiderare il concetto alla luce di ulteriori riflessioni, ed in particolare a partire da una espressione tratta dal Vangelo di Tommaso che recita: “Se vi chiederanno qual è il segno di Dio in voi, rispondete: il movimento e la quiete.
In questa chiave si nota come il servitore che abbia fatto già un lungo cammino, raggiunge la consapevolezza della inutilità del proprio movimento, mentre scopre la grandezza della Potenza che, attraversandolo, entra, per la porta che egli è, nella Vita, producendone Essa il movimento. Questa constatazione, in questo caso, è uno stato raggiunto, non un morbo.
Egli percepisce ogni movimento volontario suo proprio come una interferenza rispetto alla Potenza; e, coerentemente con la sua funzione di servitore, desidera l’immobilità, al fine di non interferire.
Per la mentalità umana, ciò che distingue i viventi dalle cose è l’animazione, ossia il movimento: ciò che si muove è animato, dunque ha un'anima. Questa mentalità tende ad attribuire la definizione di “cosa” a ciò che è fermo, anche se è vivo; così un albero, pur se vivente, è piuttosto una cosa, e ancor di più lo è una roccia, mentre non lo sono un verme o un’ameba.
In realtà, tutto è in moto, ma la mente umana, che si costruisce sopra le esperienze sensoriali, non percepisce il moto al di sotto di una certa soglia di lentezza. Sebbene un geologo possa descrivervi i grandi mutamenti di una montagna nel corso dei millenni, alla coscienza umana essa apparirà, nel tempo di una vita, immobile e immutabile.
Il servitore dunque aspira così ad una sorta di “cosificazione”, che non è morte, ma anzi vita eterna, una eterna stabilità e permanenza. Cosa singolare giacché la vita è movimento, ma coerente perché, se anche una montagna è in movimento, essa è viva ma in quiete. Così la compresenza di movimento e quiete è raggiunta, l'equilibrio prefetto tra opposti complementari, ove, secondo Tommaso, si trova Dio.
Quando Francesco cantava le lodi delle cose (Sole, Luna, Acqua, Fuoco...), cantava le lodi delle potenze immobili; lo faceva chiamandole sorelle e fratelli, in quanto creature, figlie dello stesso Creatore di cui egli si sentiva figlio a propria volta. Con ciò Francesco riconosceva, in termini macroscopici (dal punto di vista della coscienza), una identità dell’uomo con la Natura che è la stessa che anima oggi l’ecologia; ma esotericamente, e al di là forse dell’intenzione di Francesco, egli dichiarava che le Potenze sono Esseri, e che questi Esseri sono eternamente compresenti all'uomo che evolve nella loro stabilità e permanenza. Esseri “cosificati”.
Questa percezione conduce forse a una visione animistica della Natura (molto condannata in generale nella sensibilità maggioritaria); epperò l’animismo è la migliore espressione della religiosità spontanea e naturale. Ma qui l’affermazione non è – come nell’animismo – che ogni Cosa ha un'anima, ma che le Presenze dell’Essere si manifestano come Cose… differenza troppo sottile per avere un qualche valore alla percezione comune degli umani sensi.
La “cosificazione” del servitore è la ragione della mummificazione del Faraone; e della auto-mummificazione in vita di alcuni monaci buddhisti o induisti, in cui il passaggio tra la vita e la morte risulta tanto sfumato da non potere essere determinato: in entrambi i casi i Viventi si consegnano all’eternità (relativa) diventando “cose”, e lo fanno sopprimendo il movimento ed essiccando i tessuti per eliminare persino il palpito che contraddistingue la vitalità. Diventano statue, oggetti; di culto, ma non in quanto simboli di qualcosa, ma in quanto veicoli, stabilmente posti, porte, attraverso le quali l'Essenza del mummificato (la cui qualità è il servizio) possa passare... forse in entrambi le direzioni possibili. Statue viventi, come se ne trovavano in Egitto ancora qualche decennio fa, e forse ancora.
Reificato, il servitore diventa una strumento di Dio e un passaggio verso di Lui, così come lo è una Piramide: cosa capace di attrarre e veicolare in forma concentrata e orientata l’energia spirituale su una comunità (e viceversa), come fa il rubino attraverso il quale la luce diventa laser. Laser significa: amplificazione luminosa attraverso l’emissione stimolata di radiazioni. Uno... stargate.
Nel servitore esperto può sopravvenire una fase in cui la reificazione è uno stato di coscienza, tanto intimo da non mostrarsi fuori tranne che per una sorta di pesantezza di movimento...


mercoledì 18 luglio 2018

Processo di guarigione

Il processo di guarigione è un processo non somato-psico-energetico, ma spirituale. Appartiene a questa quarta dimensione umana (la prima!) che si manifesta nelle altre tre. Non vi è una guarigione soltanto somatica, o soltanto psichica, o soltanto energetica... E' un processo globale.
Il medico, lo psicologo, persino il guaritore o lo sciamano, non possono che mettere a disposizione del malato una diagnosi (ossia una definizione chiara della sua malattia) e dei rimedi; resta al malato sceglierli eventualmente, prenderli ed usarli al meglio, rendendoli efficaci. Questa non è una attività somatica, né psichica, né energetica: è un'attività che attiene a quello che la Tradizione chiamerebbe "Lo Spirito individuale". Ed è una scelta, che si esprime con una volontà.
Infatti la "decisione" di guarire deriva dal riconoscimento (che solo lo Spirito sa fare) del valore della propria vita (e non della propria esistenza!) in quanto assoluto. Non quindi - per esempio - dal valore che essa può avere per i propri cari (che se così fosse non ci si ammalerebbe), ma dal riconoscimento di una funzione in senso globale, assoluto, unitario e indipendente dalle relazione sociali ed affettive. Se lo Spirito individuale si riconosce parte dello Spirito divino, esso sente la necessità di guarire; altrimenti trova forse solo quella di sopravvivere assumendo la propria malattia come parte integrante della sua vita, e facendo con essa un patto di reciproca assistenza.
Guarire è trovare la propria essenza unitaria e lasciare che essa interagisca utilmente con le altre; stancandosi forse, e logorandosi; consumando soma, psiche ed energia e trasformandoli in Spirito. Guarigione reale è diventare quello che si è, se lo si è.
Cosicché al medico, allo psicologo, allo sciamano resta spesso in bocca l'amaro sapore dell'avere messo a disposizione tutti gli strumenti utili a guarire, e vedere che nessuno li usa.

domenica 15 luglio 2018

Peso

Il peso è la misura della forza che la gravità terrestre esercita sulla massa, ossia sul corpo, inteso come agglomerato di materia tenuto insieme dalla forza atomica. Questo per la fisica.
Il peso è la misura dell'attrazione della Terra Madre, della potenza riproduttiva e nutritiva che il femminile esercita sull'essere. Questo per la meta-fisica.
La prima definizione è dunque metafora, se si vuole, della seconda. Continuando ad usarla, possiamo indurci ad osservare come, per perdere peso, vi siano due strade: quella di perdere massa (ovvero quella di allentare i legami tra gli elementi della materia, disgregandola), oppure quella di lasciarsi attrarre dal polo opposto a quello terreno, ossia dal polo celeste, paterno, il cui potere riproduttivo riguarda non la materia, ma l'essenza.
Questa seconda possibilità produce necessariamente la prima; mentre la prima, da sola. non produce molto... e quel che produce, non sempre è positivo. Certo è che, in assenza di un'attrazione polare celeste, non vi è altra possibilità che la prima.
Sono aspetti da valutare, per chi segue un percorso spirituale, come per chi segue una dieta. Si è pesanti, quando l'attrazione del polo terreno, femminile e materno (la cosa vale per entrambi i sessi, però) è eccessiva...
Solo per suggerire qualche riflessione...

venerdì 13 luglio 2018

Migliorare la qualità dell'esistenza umana

Il viandante che si ponga su quella che viene definita "la Via" (qualunque cosa questo termine voglia, in quel contesto, significare) è vittima- in partenza - di un equivoco, che una eventuale guida non può correggere, né deve. L’equivoco è infatti sostenuto dalla stessa condizione umana in cui il viandante è calato.
L’equivoco è appunto che sia questa condizione umana la cosa da migliorare, in quanto fonte di sofferenza; ed inoltre (cadendo in un ragionamento fallace come soltanto i ragionamenti logici sanno essere), che tale condizione dipenda da fattori esterni che è necessario modificare, o al più dalla reazione errata a tali fattori.
È un equivoco che non può essere corretto perché nasce dallo stato di coscienza che – per natura – l’uomo riceve in dotazione, di serie, per così dire: una coscienza utile ad indagare il rapporto dell’individuo cui appartiene con il mondo esterno, arricchita progressivamente dall'esperienza di esso che l’individuo fa e che costituisce una base di confronto con le successive, in modo che queste ultime possano essere definite positive o negative, secondo la tecnica del confronto cui la dualità dell’uomo “di serie” risponde.  Di questa coscienza soltanto l’uomo dispone, ed essa produce quel che può produrre, di necessità.
Si tratta dunque piuttosto di lasciare che si affacci e si riveli a se stessa una nuova coscienza (una sovra-coscienza), dapprima parallela e poi alternativa alla prima, che si sarà manifestata intanto fallace, sebbene utile al mimetismo mondano.
Il viandante che si aggiri nel bosco di notte, annaspando tra i rami, senza poter riconoscere un sentiero e prendendo intanto qualche frustata in faccia dagli arbusti, si augura che venga presto l’alba; a volte, pur in pieno giorno, il bosco è però così fitto che la luce non riesce a penetrarvi, e la situazione non cambia. È normale che si trovi spaventato, disperato, in preda a quel panico che nasce dal non sapere che fare non vedendo vie d’uscita; e certo non penserà minimamente che il bosco non esista, e sia solo una proiezione della coscienza data di serie, lei sì oscurata – di serie – affinché la verità venga preservata.
Il meraviglioso irrompe quando, chiusi gli occhi da una stanchezza strana, eccessiva, uno sfinimento prodotto più dalla paura forse che dalla frustrazione del procedere in circolo inutilmente, dietro le palpebre appare un bagliore che diventa pian piano immagine, e che si compone come panorama, denso di profondità possibili… una pianura sconfinata, gioiosamente abitata, pullulante di vita e di luce. Un sogno? No, il Vero! Ché il sogno era il bosco, un incubo dal quale il viandante si è risvegliato. È la nuova coscienza che si disvela come l’aprirsi di un fiore bianco dalle profondità del cuore diventato cervello…
Un Lavoro ben fatto produce di queste visioni: visioni del Vero, spesso accompagnate dalle emozioni che anche il sogno, sempre, reca con sé, particolarmente vivaci, a volte violente. Il sogno comune, per l’uomo, è l’annuncio del suo possedere coscienze sopite; ma questa visione non è un sogno, non racconta di niente che sia passato, ma di qualcosa che verrà, e che anzi è; parallelamente a ciò che il visionario crede che sia. Coscienze che non si sapeva di possedere - in questo caso -  perché non si possedevano, sebbene si fosse predisposti a riceverle, ma che sono state date, miracolosamente, meravigliosamente.
Solo allora il viandante esce dall'equivoco necessario e viene travolto dall'irruzione del meraviglioso.
Non cambia la sua esistenza: gli si rivela la sua Essenza che allora diventa co-creatrice della Realtà. 
Delusi però resteranno - purtroppo - quelli che non sono riusciti ad uscire dall'equivoco.

giovedì 12 luglio 2018

Tutto

Ha detto un grande maestro che agli uomini si può togliere tutto, ma non la speranza.
E' passato un tempo che potrebbe essere un'eternità, e gli uomini hanno dovuto rinunciare alla speranza, essendo stato loro rivelato, dalla dura realtà, che essa è stata ridotta ad illusione. Questo è l'insegnamento di fine epoca.
Sebbene sia illusorio, la psiche umana ha necessità di inventare un progresso dei tempi controllabile, che chiama futuro; ed ha quindi bisogno di una categoria sostitutiva, nella nuova era. Più concreta, più affidabile, più adulta, più seria: quella del desiderio.
Il desiderio è ciò che attrae "verso", che obbliga a progredire; il desiderio è il fratello della mancanza, e dell'assenza, ed è il contenuto dell'amore. Il desiderio conduce verso il suo oggetto e, contrariamente alla speranza, "vede" questo oggetto e lo afferma raggiungibile, rivelando a se stesso tutta la potenza dell'amore.
La nuova era afferma:
Toglietemi Tutto, in modo che io possa desiderare Tutto, e che io possa per amore raggiungere Tutto quello che avevo sperato invano che voi voleste darmi, e che ora so che posso raggiungere io solo, da solo, in libertà.

mercoledì 11 luglio 2018

Visioni

Maestro è colui che non vi racconta di mondi che non potete vedere, chiedendovi di credergli, ma colui che vi aiuta ad imparare e ad esercitare la visione di quei mondi perché possiate guardarli insieme con lui, rendendovi maestri a voi stessi.

Questa è la risposta che do ai pochi che - bontà loro - mi chiedono come "scegliere un maestro".
Ometto in genere, per eccesso forse di delicatezza, di precisare che il maestro non lo si sceglie, ma se ne viene scelti, dacché chi sceglie un maestro come atto di volontà propria ne resterà certamente deluso; ometto inoltre di precisare che, sebbene la visione non sia la vista, è pur sempre una funzione che ha bisogno di organi a supporto, e dei quali non tutti, alla nascita, sono dotati; nessun maestro dunque potrà mostrargli ciò che non può vedere perché privo di vista. Chi si trovasse in questa condizione, sarebbe dunque da quel maestro egualmente deluso; come colui il quale, possedendo ogni possibilità di vedere, e vedendo persino, si rifiuti di accettare che quello che vede è reale... cecità, questa, non degli organi, ma della qualità umana nella sua interezza.
Se vi si dice che siamo tutti fratelli, diffidate. Siamo tutti viventi, anche i sassi, e questo è vero. Ma la vita di un sasso e quella di un animale sono cose diverse, hanno modalità e finalità funzionali diverse. I sassi sono fratelli dei sassi, gli animali degli altri animali della propria specie etc. Dunque vi sono quelli che, occupandosi di sassi, dicono agli animali che ne sono fratelli: magari in buona fede, stanno però ingannando sassi ed animali... ma c'è il caso che si tratti di quelli che, non avendo visioni da insegnare, non si curano di distinguere chi ha gli occhi da chi non li ha.
Il Vivente non ha fratelli, perché è Uno... ma questo apre ad altre considerazioni.