Quando una persona si ammala
gravemente, e sente che la propria vita è in pericolo, a volte la si vede
acquistare una sorta di distacco che le persone care interpretano come un “non
aver più voglia di vivere”.
In questi frangenti in verità può
affiorare nel malato una specie di supercoscienza, e lo si vede iniziare a
curarsi con pazienza, spirito di sacrificio (talvolta le cure hanno effetti
collaterali devastanti) ed attenzione, mentre – intanto - quella specie di
distacco sembra aumentare.
Non è una contraddizione: è che l’essere
umano è convinto che la vita sia sua e che ne possa fare quel che vuole; spesso
anzi pensa di poterla consumare a suo piacimento, perché è gratis e non sa poi
bene che farsene.
Ma nel momento in cui la vita è
davvero in pericolo, si accorge che non è proprio così: è come se un caro amico
gli avesse dato in prestito un un’automobile di lusso, il corpo, e lui l’avesse
rotta; ora la sua preoccupazione è di poter rendere all’amico la macchina in
perfetto stato, e si dedica alla ricerca del miglior meccanico che possa ripararla;
ma al contempo si è reso conto pure che la macchina non è sua e che il
rimetterla a posto è un dovere verso l’amico, ed è questo che lo motiva. Tanto
che, anzi, non appena la macchina sarà riparata, egli non vedrà l’ora di
poterla restituire. È per questo che la massima cura del proprio corpo malato e
il distacco che altri intendono come disinteresse vanno benissimo d’accordo.
Beninteso: non sarebbe necessario
ammalarsi gravemente per ottenere questo risultato di cura appassionata del
proprio essere e di contemporaneo distacco affettivo da se stessi e dal mondo
che – nella metafora – non è che la rete autostradale sulla quale la macchina
di lusso manifesta la sua potenza.
Al contrario, ogni sforzo
maieutico dovrebbe essere teso al produrre questo effettivo stato di coscienza
elevato, prima che qualcosa di grave costringa a farlo.
Ora una nota: tutta una cultura
millenaria ci ha raccontato come corpo e anima siano cose distinte e non è
vero, nella misura in cui non ci sarebbe alcuna anima senza un corpo sul quale
radicarla; una cultura centenaria che si è opposta a questa visione, poi, ci ha invece insegnato che l’identità, l’Io
sono, è il nostro corpo, e che la psiche è fondata su di esso in quanto
meccanismo neurofisiologico epifenomenico. E questo è assolutamente vero. Per
cui, riparando il corpo guasto, si salverebbe la propria identità, l’interezza
fatta di corpo e psiche.
Ma nell’atto della apparizione
fenomenica (non epi-fenomenica*) della super-coscienza (non della sub-coscienza
o dell’inconscio) che manifesta in modo tanto chiaro come amore appassionato e
cura da un lato, e distacco emotivo e sentimentale dall’altro, siano condizioni
reciproche di permanenza, è contenuta la rivelazione di un fatto davvero
sovrumano: ogni uomo è una unità inscindibile di corpo, anima, psiche, energia
e coscienza; ma tutto questo, in Uno, non è ancora l’Essenza dell’Uomo che va
oltre, ben oltre.
Questo oltre è un luogo che chi percorresse la Via potrebbe considerare
come il luogo di arrivo del proprio viaggio; e questo oltre è il luogo dell’Assenza, in cui lo sguardo che la contempla
non genera che un’attonita coscienza (sovra-coscienza) che Assenza e Presenza
sono Uno, come lo sono Distacco ed Amore.
Chi è credente e cerca Dio, non lo
troverà mai; chi non è credente e cerca se stesso troverà l’Assenza di Dio, che
è la Sua assoluta e totale Presenza e saprà perché il grandi santi sono atei.
·
La
sovra-coscienza fa discendere la Conoscenza che non c’era; la subcoscienza fa affiorare
o emergere la conoscenza che era nascosta in profondità.
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