venerdì 1 dicembre 2017

De Imitatione...

- "Maestro, - disse Serse - ti ammiro tanto! Vorrei essere come te!"
Lanciandogli uno sguardo tra il severo, lo stupito e il disgustato, secco il maestro rispose:
- "Se questo fosse il tuo problema, saresti sulla strada giusta. Ma siccome il tuo problema non è essere come me, ma essere me, ne sei così lontano che ti stai perdendo."

lunedì 20 novembre 2017

Crescita e guarigione

"La crescita [spirituale] produce guarigione in quanto produce superamento delle fasi utilmente critiche, al contrario di quanto fanno, per esempio, molte psicoterapie che retrocedono verso fasi evolutive psichiche precedenti, alla ricerca di eventuali traumi che non sempre sono in grado di sanare. Non esiste infatti guarigione che non sia raggiungimento di una condizione successiva all’attuale, e non è guarigione il ripristino di condizioni precedenti all’attuale morbosa".

[Tratto dall'incontro Pholeterion del 19 Novembre 2017]

martedì 31 ottobre 2017

Barbieri

Un tale, dai capelli e dalla barba troppo lungamente incolti, entrò da un barbiere per farseli tagliare.
Si sa, dal barbiere si finisce per parlare un po' di tutto, e in quell'occasione il discorso cadde sulla teologia.
-"Quando vedo - diceva il cliente - tanta gente povera e che soffre di ogni male, so con certezza che Dio non esiste, altrimenti non potrebbe permetterlo."
-"Il ragionamento non fa una piega - replicò il barbiere -; allo stesso modo, se ti avessi visto prima che tu entrassi qui, avrei infatti dedotto che non esistessero i barbieri!"

Trinità

venerdì 22 settembre 2017

Soldati

Un soldato va in guerra perché crede in una impresa, o nel suo Re, tanto di rischiare la vita.
E' interesse del Re che i suoi soldati siano vivi, in ottima salute e ben nutriti, ché non si vincono le guerre con i morti, i malati e i denutriti.
Ma se un soldato si arruolasse solo per essere ben pasciuto, e non perché crede negli obiettivi da perseguire, sarebbe un folle, dato che è la sua vita che sta mettendo in gioco.
Dunque, ove c'è la passione sincera, si ottiene, come beneficio accessorio e conseguente, tutto ciò di cui si ha bisogno (mai di più!); ma se l'obiettivo è il beneficio accessorio, si va a morire, e spesso da vigliacchi.
Questa è la consapevolezza dei Guerrieri dello Spirito.

giovedì 31 agosto 2017

Insegnare

Chi volesse insegnare l'Umanità a una Scimmia, nonostante questa sia l'animale più vicino all'uomo, troverebbe delle difficoltà, insite nella natura stessa dell'allievo. In pratica, si troverebbe a dover constatare che vi è solo un modo in cui la Scimmia possa imparare davvero l'Umanità, e non una sua pallida parvenza, saputa ma mai realizzata: trasformarla in Uomo.
Un maestro siffatto non potrebbe dunque essere un docente, ma dovrebbe essere un trasformatore creativo.
Ad un gradino evolutivo più alto,  è davvero la stessa cosa quando si voglia insegnare la Spiritualità ad un Uomo.

lunedì 14 agosto 2017

Vecchi terremoti di cui ci si dimentica

Il 30-12-2004 scrivevo:

"Il terremoto nell'Oceano Indiano del 26 dicembre u.s., l'evento epocale che ha provocato - si teme - centomila vittime, ha causato uno spostamento dell'asse terrestre e la vibrazione dell'intero Pianeta per alcuni giorni. Di questo si comincia a parlare solo ora, con toni rassicuranti e minimizzanti, sebbene qualche scienziato ieri abbia detto che "praticamente, è nata una nuova Terra".
Siamo tanto miopi da non vedere che è avvenuto un cambiamento fondamentale nella vibrazione delle nostre cellule (che sono in risonanza con il geoplasma) e questo fin da ora; e che questo salto quantico nella storia della Vita è costato il sacrificio di tanti di noi.
Da qualche parte, deve esserci una morale."

venerdì 11 agosto 2017

Compendio

"L’Uomo Universale è lo Spirito del Mondo, e il suo compendio sintetizzante e universale.
Il figlio è il segreto (sirr) di suo Padre,  ed è per questo motivo che il figlio anela di nostalgia per suo Padre”.
[Ibn Arabi]

mercoledì 9 agosto 2017

Medicine

Il tempo è, per l'anima, certamente la migliore delle medicine. Ma non sempre si ha il tempo di prenderla.

mercoledì 19 luglio 2017

Ribellione, liberazione, libertà

Si dice che, sulla Via, un difetto caratteristico del discepolo ben orientato e sincero, sia la tendenza insopprimibile alla ribellione. Difetto che quindi diventa il rivelatore di una qualità spirituale che distingue il "figlio dell'uomo che è Figlio di Dio".
Dentro una prigione, qualunque atto libero finisce infatti per essere, inevitabilmente, un atto di ribellione; e questo implica che il prigioniero, colui il quale è nella condizione non solo fisica ma anche psicologica del prigioniero intollerante, non può che produrre atti di ribellione.
Quando un atto di ribellione fosse tanto potente da abbattere le mura della prigione, questo sarebbe un atto di liberazione. E qui si vede come un atto di liberazione non possa che risultare distruttivo, almeno rispetto all'ordine precedentemente costituito: ogni riscatto e ogni rivoluzione lo testimoniano.
Un figlio dell'uomo che è Figlio di Dio, è un prigioniero di se stesso, e quindi la sua vita stessa è un susseguirsi inesorabile di atti di ribellione finché non si realizza - se Dio vuole - la liberazione. Ribellione a se stesso, alle costrizioni e ai limiti che egli stesso si è dato, ma che anche ha contribuito a costruire nella forma che si chiama Società. Questo essere, è un prigioniero che, posto ai lavori forzati, costruisce, restaura e consolida continuamente, obbligatoriamente, la prigione che lo racchiude; ma anche che, a differenza dei semplici figli degli uomini, non sopporta questa condizione e anela alla libertà totale, in quanto percepisce in sé una sorta di regalità, di discendenza nobile che lo costringe, quasi per obbligo di natura, a riprendersi il regno che gli è stato usurpato. Ogni grande dramma umano, che contenga nobiltà, è, in questo modo, una esperienza iniziatica.
La libertà è creatività; e quindi ogni atto di libertà non potrà mai essere distruttivo, ma solo creativo.
La libertà è però Necessità, ossia condizione in cui ogni gesto dell'Uomo Libero produce, è causa di una concretezza, di un evento interiore individuale che diventa immediatamente collettivo, e che impone quindi una costante sorveglianza e un senso di responsabilità costantemente vigile.
La condizione umana normale, individuale e collettiva, è quella di chi, prigioniero di se stesso nella prigione da sé costruita, ha la massima aspirazione raggiungibile nella liberazione, ma non nella libertà, che è una condizione spirituale: per questo molti strillano ottenendo con ciò solo di rafforzare la prigionia.
Ma non è questo il destino del figlio dell'uomo che è Figlio di Dio, di quel dannato ribelle.

venerdì 14 luglio 2017

Questione migranti

Chiunque abbia adottato uno sguardo complessivo, a volo d'uccello, sulla "questione migranti" avrà notato che ogni problema che li riguarda deriva dalla presunzione dell'esistenza di una proprietà di qualcosa e dei recinti (murari o confinari, o portuali) che delimitano tale proprietà.
Un migrante che varca queste limiti, entra in casa nostra, è un invasore, o un ladro, o un ospite (per i più accoglienti) che - come dice il proverbio - puzza dopo tre giorni come fa il pesce.
Quindi, come contenere questa invasione? come difenderci da essa (ricordo che chi teme l'invasione del proprio campo vitale denuncia una condizione pre-psicotica), come respingerla, come punirla?
Aiutiamoli in casa loro, suggerisce, a turno opportuno, qualcuno. Ma, appunto, questa idea deriva dalla presunzione che loro abbiano una casa "loro" e che noi ne abbiamo una "nostra". Come definire il diritto a questa proprietà? E' nostra ad esempio una casa che il terremoto ha demolito? E come impedire l'occupazione di una casa rasa al suolo, da parte di chi la attraversa camminandoci su?
La risoluzione della questione migranti è nell'abolizione dell'idea di proprietà, di territorio, di confine, di difesa di un pezzo di qualcosa; perché se non ci fosse questa categoria mentale, si sarebbe costretti a fare le valutazioni che le antiche famiglie contadine facevano una volta, quando, in povertà, la donna, già madre di cinque figli, annunciava all'uomo che ne sarebbe arrivato un sesto: si diceva che dove c'è da mangiare per sette persone, ce n'è anche per otto.
Questo ragionamento, necessario, si badi, di fronte all'ineluttabile, produce un atteggiamento dell'intera comunità famigliare che deve essere disposta a privarsi di un ottavo di quanto mangia per condividerlo con il fratello che arriva, ritenendo che il pane che c'è, è di tutti quelli che ci sono, e non di alcuni di loro; e mancando l'idea stessa di proprietà, sostituita da quella di condivisione di tutto poiché tutto è di tutti, nessuno dei fratelli potrebbe dire di aver diritto alla metà delle risorse mentre chi altri sette componenti la famiglia devono distribuirsi (magari in parti diseguali) l'altra metà.
Questo è il tema vero; ed è un tema che riguarda prima di tutto le coscienza individuali; solo poi diventa un tema politico. E ciò sulla spinta della Necessità, della quale occorre tener conto.
Un fatto come il terremoto ci insegna che non lo si può prevedere, arginare, o far cessare a comando; ma che non si può far altro che vederlo accadere e produrre cambiamenti nelle comunità, nelle persone che le compongono, nelle loro abitudini, nei loro rapporti, nelle loro proprietà che una volta ne facevano distinguere il ceto sociale e che ora - rase al suolo - li rende tutti eguali.
Questo è l'atteggiamento corretto per affrontare il tema "migranti"; e - come per il terremoto - non si tratta di ri-costruire strutture, e rapporti, identici a quelli che c'erano prima, ma osservare quello che l'evento suggerisce alle coscienze e come si imponga una totale revisione dei rapporti umani e dell'idea stessa di "sociale".
Le migrazioni continueranno; la gente del Sud del mondo (non importa per quale motivo esteriore) salirà e spingerà quella del Nord ancora più a Nord; l'Umanità tutta sarà costretta a convivere in uno spazio dimezzato e dovrà imparare a gestirne le risorse condividendole; la solidarietà soltanto potrà eliminare la delinquenza che nasce esclusivamente dall'idea di possesso e di difesa di tale possesso; le razze non potranno che diventare una sola razza, quella Umana. quella che costituisce il Quinto Regno naturale, e insieme scavalca ogni Regno Naturale perché va oltre il Naturale e realizza quella qualità sovra-naturale che è insita nell' Uomo realizzato. L'Uomo Intero.
Questo processo non lo si può fermare, è così maestoso e così totale che semplicemente parlare di confini o di case proprie o no risulta infantile; ogni tentativo che venga fatto nella cecità di questo processo sarà solo un'interferenza, niente di più.
Bisognerebbe rendersi conto di questo, e prepararsi, come individui insieme, a diventare gli Uomini che non siamo mai ancora stati. Perché non potremo far altro, o almeno non potranno far altro quelli che, resisi consapevoli, saranno pronti al mutamento.



venerdì 7 luglio 2017

Bello

Solo ciò che è utile può legittimamente aspirare all'armonia che lo renderà bello.
Il bello, nell'inutile, è sempre fatalmente grottesco.
Ciò vale per ogni opera, e massimamente per ogni opera vivente qual è l'Uomo.



mercoledì 14 giugno 2017

Libertà come diritto, libertà come rovescio

Finora l'idea di libertà è stata intesa come "libertà dal bisogno, libertà dalla paura", oppure come "libertà di scelta", a seconda che si ponesse l'accento su cosa o chi la togliesse all'uomo, o su cosa l'uomo se ne dovesse fare.
Oggi tutta l'Umanità ha bisogno ed ha paura; e quindi, non avendo libertà, non si pone neanche il problema di come usarla. A parte, certo, quegli atti formali (come le elezioni) che ne sembrano esercizio, ma che sono - di fatto - vacui ritualismi.
Non molti, riflettendo sulle condizioni globali in cui l'Umanità versa, si sono accorti che - come per molte altre cose in questi tempi - causa ed effetto si sono scambiati le rispettive polarità. Dal che deriva che il bisogno e la paura non sono causa di perdita di libertà, ma effetto dell'assenza di scelte.
Come ho detto altre volte, la scelta presuppone almeno una dualità (di possibili); quando invece l'Unità la riassorbe in sé, non c'è più scelta, e la possibilità diventa Necessità; più che bisogno.
Questo dovrebbe (e non mancherà di farlo, alla lunga) mutare le coscienze. Perché diverso è l'animo di un viaggiatore che si trovi su un lungo rettilineo senza diramazioni e che non possa tornare indietro, né fermarsi, dal momento che il suo andare si chiama vita. Costui non può che osservare cosa ha davanti man mano che avanza, pronto a reagire se necessario; la paura sarebbe quella di non saper affrontare la difficoltà ignota che si presenti, ma soprattutto la percezione che - della sua vita - sia padrone qualcun altro.
Questo è il momento che vive la sovra-coscienza complessiva dell'Umanità, e che - individualmente - ognuno percepisce come sua propria. E questa è un'altra, necessaria, presa d'atto del fatto che qualcosa è davvero fattore di cambiamento globale solo quando ciò che è singolare è anche, e totalmente, plurale; cioè quando si insedia l'Unità Unica.
Quelli attenti ai fenomeni la chiamano globalizzazione, ma non è un'ammucchiata come la parola sembrerebbe adombrare: è una essenzializzazione.
Paradossale come questo fatto, che è il compimento - se vogliamo glorioso - di una promessa persino evangelica fatta all'Uomo, lo terrorizzi tanto..., ma a terrorizzarsi è appunto l'uomo, non l'Uomo che con ciò si realizza e che si esalta alla scoperta che è nel non avere scelta che si esprime, totale e reale, la propria Libertà.

Colpire di rovescio


martedì 13 giugno 2017

Il sogno di Giano

Non si tratta di essere guardiani della soglia, che si voglia dare a questa funzione un carattere negativo o positivo, spaurente o rassicurante: si tratta piuttosto di essere la soglia.
Questa posizione è necessariamente statica, perché permanente. Non è quella della porta, capace di girare sui propri cardini per chiudersi o aprirsi, ma quella del limen.
Se il nome di questa porta è Janua (in latino), il nome del limen è il suo maschile, Janus.
All'origine del ciclo (Giano è un dio delle origini, un demiurgo creatore, un iniziatore di cicli) egli è sintesi di due aspetti, il femminile e il maschile, ché è nella loro unione che i varchi possono aprirsi o chiudersi, e più precisamente nel tempo limitato in cui essa si realizza sul piano fisico (non solo metafisico!). L'unione infatti stabilisce quella parziale sovrapposizione (la superimposizione cosmica di W. Reich) di manifestato e non-manifestato che è un ambiente - assai provvisorio -, un habitat per ciò che essendo, si sta appalesando sul piano dell'esistente. Quel luogo è molto simile alla foce di un grande fiume in cui acque dolci e salate, fredde e calde, si mescolano agitandosi. Quello è un varco, ma anche utero in cui forme nuove si producono e si accrescono.
Alla fine del ciclo, Janus è il varco in sé, e le due facce non rappresentano più una dualità (di qualsiasi natura), dal momento che l'Unità la ha riassorbita, ma piuttosto lo sguardo contemporaneo non sul passato e sull'avvenire (come è comunemente inteso) ma quello circolare e immediato sul Tutto che è diventato Uno..
L'elemento di diversificazione delle acque fiumane e marine è il sale, e basta ritirarlo perché la diversificazione non vi sia più, non vi sia più il varco e le nuove manifestazioni non possano più rendersi tali.
Ma se non ci fosse più il sale, ogni acqua sarebbe dolce, ogni acqua sarebbe acqua di fiume e non si potrebbe parlare più di mare in quanto funzione materna, matrice o brodo primordiale... esisterebbero solo le acque fredde e dolci, quelle paterne che scendono a riempire ogni depressione, ogni vuoto, dalle vette delle loro fonti.
Giano cessa la sua funzione e si addormenta. Non dormirà di giorno, né di notte, complementari ormai riassorbiti... non dormirà nel tempo, ma il nuovo ciclo sarà forse il sogno che farà.

giovedì 8 giugno 2017

Dei miracoli

C'è chi, sapientemente, ha detto che "il miracolo è come il sorgere del sole: esso preesiste nell'ordine divino e si manifesta soltanto in funzione di un'apertura umana; così il sole appare perché la terra si volge verso di lui, mentre in realtà è immobile rispetto alla terra. La natura è simile a un velo mobile davanti a una soprannatura immobile". (1)
Per questo il miracolo, che è permanente, è invisibile e quindi per definizione non manifesto, dunque inattuato, finché il possibile miracolato non gli si volga e lo veda. L'attuarsi del miracolo, ancora una volta, è una questione di coscienza.
Si dice che esso si realizzi quando il credente ha fede: e ciò è molto vero quanto molto incompreso. La fede è una condizione - anch'essa della coscienza - per la quale ogni cosa è percepita nella sua contemporaneità e non nella sua sequenza temporale, cosicché quanto si vede realizzabile (in futuro) è con questa visione reso realizzato (nel presente); la fede non è speranza, è visione. E la visione non è senso della vista ma percezione istantanea e permanente del tutto. Quindi è da distinguere chi ha fiducia da chi ha fede, poiché la prima cosa è un sentimento, la seconda una facoltà che - giustamente - viene dichiarata "dono di Dio".
Fare miracoli è volgere lo sguardo all'Essenziale, osservarne un aspetto e con ciò realizzarne la qualità nel manifestato: una cosa simile a guardare Gesù senza riconoscere il Cristo; o, all'opposto, vedere il Cristo attraverso la velatura trasparente di Gesù.

La fine di un'epoca è contrassegnata dall'ispessimento del velo, tale da rendere impossibile attraversarlo con lo sguardo perché diventato materia pesante; e quel velo è, lo ripetiamo, coscienza. Impossibili dunque i miracoli, impossibile vedere la soprannatura immobile...
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(1) F. Schuon

Piazza dei Miracoli


martedì 6 giugno 2017

Singolarità

L'uomo che possa autodefinirsi individuo, e dunque "singolarità", si renda consapevole di essere - perciò - una stella collassata.

lunedì 5 giugno 2017

Buchi (neri)

Le poche frasi che seguono sono estrapolate dal testo di un paio di lezioni divulgative tenute da Stephen Hawking per la BBC, con l'intervento di un giornalista (che qui riporto in blu) che contribuisce a chiarirne alcuni punti.
Chiunque abbia avuto la pazienza di frequentarmi e si sia convinto che la Conoscenza sia avvicinabile per via analogica molto meglio che per via analitica, vi troverà forse degli spunti di riflessione non sulla fisica teorica ma sulla propria esistenza contemporanea e su alcuni dei temi più radicali che turbano le coscienze incapaci di comprendere i mutamenti in corso.

"...una stella sferica, simmetrica e uniforme sarebbe destinata a contrarsi fino a ridursi a un singolo punto di densità infinita. Questo punto viene chiamato singolarità... Una singolarità è il risultato a cui si giunge quando una stella gigante si contrae in un punto incredibilmente piccolo... non si riferisce solo alla fine di una stella, ma anche a un'idea molto più fondamentale riguardante il punto d'inizio della formazione dell'intero universo."

"Anche se durante la vostra caduta in un buco nero non notereste nulla di particolare, un osservatore remoto non vi vedrebbe mai attraverso l'orizzonte degli eventi. Ai suoi occhi, il vostro moto subirà un progressivo rallentamento e il vostro corpo sembrerà librarsi appena sopra l'orizzonte. La vostra immagine si farà via via più debole e più rossa finché non sparirete del tutto alla vista; a quel punto, per quanto riguarda il mondo esterno, sarete perduti per sempre."

"...l'intero spazio è pieno di coppie di particelle e antiparticelle virtuali, che continuano a materializzarsi a due a due per poi separarsi e tornare infine a unirsi annichilendosi a vicenda.
[...] Ora, in presenza di un buco nero, un membro di una coppia... potrebbe cadere nel buco, lasciando così l'altro membro senza il partner necessario per la propria annichilazione. La particella (o antiparticella) rimasta sola potrebbe a sua volta cadere nel buco nero dopo la sua compagna, ma potrebbe anche riuscire a fuggire allontanandosi nello spazio esterno, dove apparirebbe come una radiazione emessa dal buco nero."

"... è possibile cadere in un buco nero per poi uscire in un altro universo? ... ciò potrebbe essere possibile... non si potrebbe però tornare nel nostro universo... Il messaggio che vorrei lasciare è che i buchi neri... non sono quelle prigioni eterne che credevamo. Le cose possono uscire da un buco nero sia in questo universo sia - magari - in un altro. Così se vi sentite in un buco nero, non vi arrendete: c'è sempre una via d'uscita!"

Infine, tratta dalla postfazione di M. Cattaneo, direttore de "Le Scienze":
"All'inizio del 2016, [...]  l'11 Febbraio le collaborazione LIGO e Virgo hanno annunciato la prima osservazione diretta delle onde gravitazionali previste dalla relatività generale. Il segnale misurato è stato prodotto dalla fusione di due buchi neri rispettivamente di 36 e 29 masse solari che cadevano l'uno verso l'altro in una traiettoria a spirale. E' stata dunque anche la prima osservazione di un sistema di buchi neri."

Vi sono molti altri spunti di riflessione, e molte argomentazioni che chiariscono come si giunge alla formulazione delle frasi che ho estratto, ma li lascio scovare a chi vorrà leggere questo facile librettino.



sabato 13 maggio 2017

Sulle regole

E' noto che nelle comunità monastiche di ogni genere vi sia qualcosa che si chiama Regola. Spesso scritta e approvata dalle autorità ecclesiastiche, in altri casi essa è, meno formalmente, legata a una sorta di codice di onore che i partecipanti a un conclave stabiliscono consensualmente come strumento attraverso il quale praticare la propria Via e rispettare gli altri compagni che con loro la condividono.
Al di là delle formalità e dei formalismi rituali, e al di là dei regolamenti sociali e polizieschi, questa speciale Regola si fonda sul rispetto di sé, degli altri, e della Cosa che insieme si fa; contrariamente alle leggi poliziesche, non si dovrebbe trovare quindi, tra i liberi contraenti, alcuno che desideri aggirare o addirittura violare tale Regola, per il semplice motivo che - mentre per le leggi poliziesche chi lo fa e viene scoperto (cosa questa non così automatica) viene punito in modo coercitivo e vendicativo - per i violatori della Regola monastica d'onore la pena è l'inutilità di ogni sforzo fatto nella direzione della spiritualità che ci si era ripromessi di raggiungere. Per chi è sincero in questo suo desiderio, è la pena più dura, assoluta e impietosa che si possa ricevere; ed è automatica, nel senso che non richiede di venire scoperti, e quindi non prevede alcuna indagine, né giudici né alcun detective.
In che cosa consiste una Regola, dunque? In alcuni impegni ed accorgimenti, di solito ritmicamente ripetuti, nella costanza, nel dare seguito alla parola data, nell'azione che segue senza fallo l'intenzione dichiarata. Nel rispetto, poi (questo fondamentale) di ogni altro contraente e dell'impegno che questi ha preso. Non vi sono sotterfugi, bugiòle, scuse che tengano. La Regola non è aggirabile né modificabile, né piegabile alle proprie esigenze, una volta che la si sia abbracciata. Farlo è starne fuori, il che equivale a star fuori da quella comunità, che ciò sia apertamente dichiarato da qualcuno, oppure no. I fatti, lo dichiarano.
Se c'è un antico cipresso in un giardino, e vi si pianta accanto un giunco nel desiderio che i due alberi si fondano in una sola creatura (che è in fondo la finalità di una comunità spirituale), è il giunco che deve piegarsi attorno al cipresso, ché il cipresso non può (né deve!) farlo. Chiedere e credere che il cipresso si pieghi attorno al giunco è follia, pretesa assurda, arroganza e totale incomprensione di come stiano di fatto le cose. Cosa fa la Regola? Dice come piegare il giunco attorno al cipresso, ne indica il modo migliore e più rapido e diretto.
Chi comprende questo fatto si pone con questo in una sorta di élite che è fatta di gente d'onore, gente seria, che rispetta se stessa e gli altri, che si muove sicura e senza deviazioni verso l'obiettivo che si è data mentre intorno gli altri si agitano in uno spettacolo grottesco improntato al motto "io speriamo che me la cavo", e lo fanno sperando di non venire scoperti. Persone, queste, che il saggio osserva con un sorriso tuttavia di benevolenza compassionevole, ché di meglio non sanno fare.
Chiedo non molto, chiedo solo che la Regola sia rispettata: quella vera, eterna che nessun parlamento ha mai potuto scrivere. Chiedo di intrattenermi solo con gente d'onore, che liberamente la rispetti senza alcuna deroga, gente di cui possa fidarmi senza dubbio alcuno.


Regola che non si usa più usare


sabato 29 aprile 2017

Del dolore e della pace

La storia di ogni uomo è contrassegnata da episodi dolorosi.
Alcuni sono improvvisi rovesci, drammi istantanei; altri sono sottili, progressivi, incessanti dolori che si mantengono sotto la soglia della sopportabilità e che distruggono (ma inesorabilmente) solo alla lunga.
Nessun uomo maturo può dire di non aver provato, e di non essere stato provato, da uno o più dolori.
Alcuni però si identificano con il proprio dolore, ne fanno un totem, un idolo a cui sacrificare il resto della propria vita e una giustificazione per ogni fallimento o rinuncia presente e a venire.
Altri guardano avanti, come l'escursionista solo: avanza lungo un sentiero pericoloso e irto, avendo sulle spalle lo zaino del proprio dolore. Certo, avanzerebbe più spedito se non portasse pesi, ma, giunto in cima, il contenuto di quella zaino sarà svuotato, conterrà anzi il pasto del riposo (ma come?), e il ritorno sarà leggero.
Il dolore va attraversato, non idolatrato né respinto.
Perché l'umanità di oggi è così intrisa di dolore che dispera di attraversarlo, e richiede una sola cosa: non sentirlo. Si irrigidisce e si ripiega per resistergli meglio; o conduce la propria dolorosa vita come cercando di renderla un anestetico, che alla lunga intossica e aggiunge dolore a dolore. Non si è mai sentito che il dolore anestetizzi dal dolore, a meno che non ce se ne procuri uno più forte. E così molti fanno.
Vi è molto dolore inutilmente procurato, ma il dolore che ha maggior peso e senso è quello che proviene dalla lotta contro se stessi.
Ciò perché, mentre la causa del dolore non è quasi mai permanente, la reazione a tale causa può protrarsi perché la si tiene in vita e la si alimenta, o non si riesce ad allontanarsi da essa. Sono quei fantasmi di cui si dice che non riescano a trovare la luce e rimangano intrappolati tra i vivi.
Chi lotta contro se stesso ha però - lui solo, non l'anestetizzato - una grande possibilità: incontra fatalmente un luogo dell'anima, un punto, in cui si riconosce impotente, o vinto, privo di mezzi per superare se stesso (come potrebbe essere diversamente?). In quel punto egli si arrende, davvero, e si lascia inondare dal dolore contro il quale aveva creduto di combattere. In quel momento può accadere un miracolo, e cioè che il cercatore di pace venga invece trovato.
E il miracolo più grande è che egli si rende conto che il dolore inutile e la ricerca vana di pace, la lotta perduta contro se stesso, sono stati una Necessità per trovare quel punto, e il contrario dell'inutile: sono stati una grande vittoria. E si sente un prescelto, un fortunato.
Purtroppo alcuni di questi possibili fortunati, si fermano un attimo prima di arrendersi, cioè non si arrendono affatto, ma voltano le spalle al dolore rabbiosamente perché ritengono che gli sforzi siano improduttivi. Si attendono "certi" risultati e rifiutano quindi la loro stessa impossibilità di ottenerli, cosa che è invece "il Risultato".
La vittoria è nella sconfitta, ma non lo sapranno mai.


Zaino


domenica 23 aprile 2017

Umanità e Spiritualità

Nella condizione in cui la sola ricchezza posseduta è l'immondizia, cioè tutto quello che si era creduto non servisse e ora ci sommerge, è naturale che alcuni inganni vengano svelati, ed è naturale che si verifichino all'opposto alcune allucinazioni.
Gli scarti della nostra personalità, le parti brutte che non ci piacciono e che nascondiamo persino a noi stessi, sotto lo zerbino dello nostre maschere, diventano le sole che ci contraddistinguono come Me. Le sole risorse.
Queste parti, affiorano e diventano ciò con cui - soltanto -  ci possiamo relazionare con gli altri, avendo esse soffocato e seppellito quelle "belle". Per cui le nostre relazioni divengono belluine, rapaci, predatorie e ferine.
In questa condizione si produce inevitabilmente questa allucinazione: quando l'uomo è ricco di umanità (intesa come un relazionarsi reciproco e consonante, armonico e solidale), allora guarda oltre e si chiede quale sia la spiritualità che gli compete e alla quale possa accedere come dimensione sovra-umana, come cioè egli possa superare se stesso; ma quando l'umanità è assente, è normale che sia proprio l'umanità ad essere la sola sfera cui può aspirare la belva.
Così oggi molti confondono la spiritualità con l'umanità, considerando "spirituale" il buon sentimento che, nell'uomo, lo portava spontaneamente ad aiutare chi soffre o a rialzare chi cade, o l'attitudine contemplativa che ci faceva amare un tramonto o un bambino.
Non è così, occorre saperlo: questo è solo umano.

Bambini al tramonto. Altri, forse, all'alba.


sabato 22 aprile 2017

Immondizia

Nello Sri Lanka, il 15 aprile scorso, una montagna di rifiuti alta 91 metri si è abbattuta su una baraccopoli uccidendo 19 persone.
Il 21 aprile un documentario Rai sulla spazzatura ha illustrato come sia ormai chiara al mondo scientifico l'insostenibilità della produzione di rifiuti, che potrà, a seconda delle interpretazioni dar luogo, entro un centinaio d'anni o due, all'estinzione della razza umana, sepolta, come nello Sri Lanka, dalla propria immondizia. Uno degli scenari possibili è questa estinzione tout court, l'altra è che, come avvenne nel lontano passato della storia del nostro Pianeta, l'inquinamento produca rivoluzioni nel metabolismo stesso della natura. Avvenne che nacque l'ossigeno, uccidendo le primitive forme di vita che non lo tolleravano e che erano nate nella sua assenza, ma ciò produsse la nascita delle specie attuali tra cui l'uomo. Quindi, alcuni scienziati, quelli ottimisti, ritengono che i batteri, capaci di adattarsi rapidamente, alla estinzione dell'umanità, possano generare altre forme di vita più alte ed evolute a partire dalla precedente rovina.
Naturalmente, tra le righe, il documentario trova il modo di far notare come il consumismo (e con esso ogni forma economica e politica che ne deriva o che lo sorregge) si estinguerà avendo portato a morte i consumatori. Chi vive nelle vicinanza delle discariche (una in Ghana in particolare) ha una speranza di vita non superiore ai trent'anni, e i 13nni sono già così avvelenati da aver già prodotto danni organici irreversibili, anche al cervello.
Questo è lo stato dell'umanità che "fa la differenziata", e anche finta di niente.
Ma al di là della cronaca, occorre sempre estrapolare il significato metaforico degli avvenimenti, ovvero il riverbero che essi hanno sulle coscienze individuali: ho dovuto ricevere gli aspri rimbrotti di due coniugi anziani perché avevo tentato di gettare un pezzo di carta nel "loro cassonetto"; e l'affermazione drastica di una vicina che sostiene di avere il diritto di tenere l'immondizia fuor di casa sua mettendola davanti alla mia porta. Nel primo caso si nota un'affezione all'immondizia che, alla fine, si manifesta come l'unica cosa che si ha e quindi l'unica cosa da difendere; nella seconda il tentativo di gettare l'immondizia che si produce (l'uomo è un sistema dissipativo) addosso agli altri nell'illusione pacchiana di essersene liberati.
Cose queste, entrambe, che si mostrano evidenti anche sul piano morale e caratterizzano le relazioni sociali di questa fase terminale dell'umanità. Relazioni ferine, dato che l'umanità (intesa come sentimento di solidarietà umana e di mutuo sostegno) è un ricordo. Se all'Umanità (razza umana) si sottrae l'umanità (solidarietà) si ottiene un prodotto simile al caffè decaffeinato: una cosa che non è più ciò che era, ma che si vende come se lo fosse, e a prezzo maggiorato.

Panorama della Sri Lanka

lunedì 17 aprile 2017

Foci e voci

Un tale, aspirante monaco, aveva passato diversi anni presso un maestro, quando un giorno, avendo ascoltato un discorso di lui e avendone data una interpretazione, ne ebbe un'illuminazione.
Si recò allora dal maestro e gli disse: "Maestro, grazie a te ho improvvisamente e chiaramente compreso che ho bisogno di ritrovare la mia origine, il luogo da dove provengo, e per questo ho deciso di tornare a casa oggi stesso; ti ringrazio per questo e per il grande lavoro che hai fatto su di me."
"Vai pure - rispose il maestro - ma non devi ringraziarmi, perché, se è pur vero che ho fatto un grande e faticoso lavoro su di te, esso non ha prodotto alcun frutto." Girategli le spalle, l'anziano maestro si allontanò con passo stanco.
Il discepolo, sconcertato, si avviò lentamente lungo la strada che l'avrebbe ricondotto a casa.
Per qualche ora, durante il cammino, fu immerso nei suoi pensieri: non riusciva a capire perché il maestro, che avrebbe dovuto - come sperava - rallegrarsi per la sua illuminazione, gli aveva risposto in modo così distaccato e con tale amarezza.
Non sapeva più quanto aveva camminato quando, molto contrito, le forze gli mancarono e si impose di riposare. Era giunto senza accorgersene sulla sponda di un fiume poderoso, che più a monte avrebbe dovuto attraversare.
Si sedette e prese le sue provviste per rifocillarsi, ma il suo sguardo fu catturato dal lento, pacifico e poderoso scivolare del fiume. Vide che scorreva nella direzione opposta a quella che lui, tornando a casa, aveva preso.
"Certo, io torno all'origine e il fiume se ne allontana andando verso il mare. Non può fare altro."
Si addormentò, e sognò il suo maestro.
"Qual è - gli diceva in sogno - l'origine dell'origine?"
Risvegliatosi di colpo, il discepolo comprese: l'origine del fiume non era la fonte, ma il mare, che evaporando dava luogo alla pioggia che alimentava la falda che sgorgava come polla sorgiva e dava origine al fiume... e quindi per andare all'origine vera egli - come faceva irresistibilmente il fiume - avrebbe dovuto andare avanti, non tornare indietro!
Il discepolo si rallegrò della sua intuizione e ringraziò in cuor suo il maestro che non l'aveva abbandonato.
Preso da rinnovato vigore volle tornare da lui e si incamminò..., ma fu fermato da una voce interiore che, irata, gli gridò: "Che fai, torni di nuovo indietro?"

Una foce


domenica 16 aprile 2017

Prìncipi e princìpi

C'era una volta un giovane Principe. Bello e pieno di grazia come lo si può immaginare, egli se ne stava tutto il giorno, e la notte anche, sulla torre d'avorio immerso nei suoi libri.
Non usciva mai, mangiava poco, pensava troppo, non aveva amici.
Il re padre, vedendone il pallore e la malinconia se ne preoccupò e non potendo ottenere le confidenze del figlio che si era ormai ritirato nel proprio isolamento, mandò a chiamare il solito saggio che si era a sua volta rifugiato nella solita caverna sulle montagne, isolandosi non meno del principino.
Costui, il saggio, disse che non aveva voglia di muoversi e che, se proprio era necessario, il principe fosse condotto a lui. Con riluttanza, così si fece.
I due restarono soli nella caverna per tre giorni interi, senza che nessuno potesse avvicinarsi. Poi il principe montò sul suo solito cavallo bianco e cavalcò via.
Dopo qualche giorno, il vecchio saggio, che non aveva detto una sola parola circa la visita del principe, ricevette la visita del re, che, adirato, voleva conoscere l'esito di quel lungo colloquio.
Mentre si preparava il caffè con la moka, e nessuno li disturbava, il vecchio disse al re:
"Tuo figlio è timido, perché è un principe. Il suo lignaggio prevede che egli sia, per natura, colmo di nobiltà, di orgoglio della propria discendenza e delle qualità che contraddistinguono i condottieri, i padri della patria e gli eroi. Egli si è innamorato di una fanciulla che vede dalla torre mentre ricama e canta in una piccola casa del villaggio e che non sa di essere ammirata da lui. Credo si chiami Silvia. Vorrebbe avvicinarsi, ma non è abituato a frequentare persone e il suo stesso amore lo rende timido, perché teme di non poter essere all'altezza delle aspettative della fanciulla che, sebbene sia povera e si consideri indegna di lui, si aspetta però che un principe abbia tutte le nobili qualità che gli si attribuiscono. Dipende dal fatto che tu, o re, hai fatto del tutto per farti conoscere come nobile, saggio, eroico e generoso perché il tuo popolo ti amasse, ti ammirasse, ti venerasse. Da tuo figlio tutti si aspettano che sia della tua stessa stoffa. Chissà poi - azzardò il saggio - se tu lo sei davvero o se l'idea che tutti si sono fatti di te non sia il prodotto di una campagna di comunicazione... Comunque, dal principe ci si aspetta che incarni ogni nobile principio e qualità possibili, e che inoltre sia colmo di quelle specifiche qualità virili che - come hai fatto tu - assicurino figli maschi e dunque una discendenza regale. Dunque, se egli si avvicinasse alla fanciulla con il suo pallore, la sua timidezza, il suo impaccio e il suo tremore, ella ne resterebbe delusa fortemente e persino, egli crede, lo deriderebbe, fino a parlarne con le sue amiche e a diffondere tra il popolo un'idea della famiglia reale opposta a quella che tu hai creato negli anni. Per questo egli si è ritirato e teme di farsi vedere, teme di non essere all'altezza (proprio lui che tutti chiamano "Altezza"!) e di deluderti. Ma l'amore lo divora e ne brucia la carne."
"Ma dov'è ora? -  chiese il re tra il preoccupato e l'adirato -.Non è più tornato a palazzo!".
"Ah, ecco... - rispose esitando il vecchio saggio -, credo sia andato da quella fanciulla che ricama cantando..."
"E...?" ansimò il re.
"Vedi, nei tre giorni che è stato qui ho approfittato della sua predisposizione allo studio per fargli imparare un discorsetto da farle, e penso che abbia dato seguito alle intenzioni che l'ho quasi costretto a dichiarare..."
"Come? Quali?"
"Ecco... il discorso suonava pressappoco così: ti amo, sono pallido, timido, e sebbene mi dicano carino sono poco palestrato, e nient'affatto aderente all'immagine che mio padre ha creato per sé e che penso voglia farmi incarnare. Sono un misero uomo, fragile, emotivo, indeciso, incapace di prendere decisioni e di mantenerle, insicuro; non sono neanche così bello e non so proprio se io sia così virile, anche se - quando penso a te - il desiderio mi divora. Eccomi, questo sono. Ma ho un cavallo bianco, vuoi salirci su e venire via con me?"
"Ha davvero fatto questo stupido discorso a quella ragazza del popolo?"
"Beh, non ne sono tanto sicuro, ma un maniscalco che ha bottega vicino a quella ragazza è venuto a trovarmi ieri per chiedermi un medicamento, e mi ha detto di aver visto il principe bussare alla porta della fanciulla e di averli poi visti andare via insieme sul cavallo bianco..."
"Come? - ansimò ancora il re senza fiato e paonazzo in volto - Dove? Perché...?"
"Mah..., il maniscalco ha bottega proprio tanto vicino e ha colto qualche parola... certo ha dovuto smettere di picchiare sull'incudine, ma l'ha potuta sentire..."
"E cosa...?"
"Sembra che la fanciulla abbia detto: solo un principe, solo un nobile può dichiararsi umilmente un nulla. Solo un forte può dichiararsi debole e rischiare il giudizio. Solo un grande può fingersi piccolo, quando tutti i piccoli non fanno che fingersi grandi. Solo un Uomo può dire ti amo mentre si dichiara indegno di essere amato, perché solo un Uomo Vero ama senza chiedere di essere ricambiato. Se hai un cavallo sei ricco, perché può portarci lontano. Andiamo."
"E dunque?"
"Credo che tuo figlio abbia fondato con la sua regina un regno altrove, dove avrà la sua discendenza, se Dio vorrà, e non la tua."
Al re prese un infarto fatale e non ebbe discendenza. Il suo trono è ancora vacante, se qualcuno vuole il suo regno...

Ai miei scarsi lettori, una buona Pasqua di resurrezione.

Un principe che si vede che è falso


martedì 11 aprile 2017

Sulla paura di essere "altro", parte II

Mi si obietterà che, se avessi ragione, non ci sarebbe qualche milione di fedeli di tutte le religioni ad affollare i luoghi di culto; né devoti talmente ferventi da dar luogo a guerre di religione.
Se avessi ragione, si dirà, la paura della dimensione metafisica e religiosa avrebbe impedito queste adesioni di massa alla fede.
A guardar bene, però, ci si accorge che questo genere di fede non mette in discussione il proprio simulacro, ma anzi gli conferisce stabilità, e conferma che è esso ad essere IO, con una specie di gioco - stavolta - iperrealista.
Questo genere di fede infatti produce un'attenzione alla vita di ogni giorno, dona un senso "alto" - a volte - alle sue follie, giustifica il dolore e il sacrificio, e assicura che viverla onestamente e con sentimenti bonari e amorevoli condurrà a un benessere "altrove"; ma intanto tutto rimanga com'è, a partire da se stessi e da quello che "si crede" di essere.
L'altra forma, invece, impone di scavare dentro di sé alla ricerca della radice del proprio essere e ciò è faticoso, richiede pazienza, disciplina e costanza; dunque rende l'esistenza precaria nella misura in cui la tranquillità non è altro che un equilibrio stabile. Chi si sottopone liberamente a questa ricerca rinuncia all'equilibrio e alla stabilità, non rimanda ad altra vita ciò che può fare subito, si convince presto che non si tratta di ben operare qui per ottenere ricompense, ma che si ha a disposizione un tempo che l'uomo chiama vita per fare quello che gli altri fedeli attendono come un dono o una remunerazione. Farlo, e da sé!
Sanno che si hanno remunerazioni dalla propria stessa opera mentre la si compie, come frutto secondario del lavoro di scavo all'interno di sé alla ricerca del sé altro, mentre gli altri cercano l'altro da sé, che proprio per questo non coinvolge minimamente il sé in sé.
Certo sono scelte, modalità di aderire a una richiesta fondamentale dell'umano di andare oltre; direzioni opposte di ricerca, la cui scelta è determinata da fattori individuali che affondano le proprie radici addirittura nella linea di generazione, quindi nei luoghi e nelle culture, negli avi e nelle ascendenze, nelle condizioni di esistenza che hanno definito la condizione generale di ogni essere.
O forse no, perché forse, quelli che scavano scelgono di farlo prescindendo da queste condizioni, mentre invece - semplicemente - gli altri non ne prescindono. Sì, forse così è più giusto, dato che ogni essere che si incarni in questo mondo subisce pur sempre una prigionia...


Iperrealismo: quando l'imitazione del vero è tale da essere presa per il vero.


Sulla paura di essere "altro"

Quando si propone ad una persona di intraprendere un così detto "percorso spirituale" si incontrano sempre smarrimento e paura. La si può leggere negli occhi di chi riceve questa proposta; è anzi da considerare un "segno" la reazione che se ne ricava; perché - invece - a qualcuno, molto raramente, brillano gli occhi mentre è percepibile in lui un palpito del cuore simile a un battito d'ali.
Chi ha paura è colui che ha costruito faticosamente un modello che chiama IO, o "me"; tanto faticosamente che - pur sapendo oscuramente che non si tratta che di un simulacro - non intende smantellarlo perché teme il vuoto che lascerebbe e la fatica immane che costituirebbe il doverne ricostruire un altro, nuovo; e poi fondato sul nulla, sull'assenza di ogni vera entità riconoscibile come IO. Costui sa di "non essere", e venir costretto a constatarlo senza possibilità di rifugiarsi nel proprio simulacro è abbastanza da terrorizzarlo.
Ora, intraprendere un così detto "percorso spirituale" consiste propriamente nell'indagare sulla propria, vera, natura. E ciò, in chi ha una percezione oscura del vuoto che c'è sotto il simulacro non è accettabile. Questo livello di percezione "oscura" è ben definito sub-conscio.
D'altronde in diverse occasioni ho cercato di far notare come la diffusione di questo sentimento di smarrimento sia alla base della dilagante psicosi, della paranoia che la descrive e dell'ossessione e compulsione che tentano di coprirla o compensarla.
Il mondo del sub-conscio è - riguardo alla descrizione del mondo psichico che ne fa la psicoanalisi - un mondo sotterraneo, e descrive quindi una sub-realtà. Non è quindi ingiustificato dichiarare che tutto ciò che questo mendo descrive come "reale" è invece "surreale", non meno di certi dipinti di Dalì dai quali riceviamo lo stesso senso di smarrimento che - pure - il subconsio restituisce a certi che indaghino sulla natura della propria individualità.
Ce n'è abbastanza per giustificare l'orrore che la proposta di intraprendere una seria ricerca spirituale comporta in questi. C'è inoltre da dire che il simulacro, nel suo significato originario,
"Un simulacro designa un'apparenza che non rinvia ad alcuna realtà sotto-giacente, e pretende di valere per quella stessa realtà. La parola deriva dal latino simulacrum, statua, figura, e indicava originariamente l'immagine o la rappresentazione di una divinità, in special modo nelle celle dei templi, oggetto di culto nell'antichità. (Wikipedia)"
ha una forte valenza religiosa, e quindi se è il simulacro a dover essere messo in questione, non ci si può stupire se proprio la spiritualità sia il più temuto dei banchi di prova. Ho visto persone fare gesti apotropaici, a scacciare il ... maligno, quando gli si prospetta di vedere un po' di luce nei propri personali sotterranei.
Ma poi c'è colui al quale brillano gli occhi, ed è quello che lotta con se stesso per rovesciarsi come un calzino, in modo che quello che è interno, interiore (si direbbe giustamente esoterico) possa emergere ed essere reso visibile; costui sa (non oscuramente, ma luminosamente) nel proprio sovra-conscio (che è quella parte di coscienza che un vero essere umano possiede in potenza, per natura, ma che non sa usare), che la parte di sé a se stesso invisibile è la parte più bella, più luminosa e più esaltante da trovare. Costui è stufo di simulacri, non vuole immagini, né di sé né di altri, più o meno invisibili: egli vuole possedere la sua propria essenza e natura, quella vera.
Costui non ha paura di essere "altro", sa di essere Altro e l'unica sua paura è di non avere il tempo di rivelarselo e rivelarlo.

Dalì, "La persistenza della memoria" [di non essere?]





venerdì 7 aprile 2017

Doveri coniugali

Un tale monaco, che praticava da anni sotto la direzione di un illustre maestro spirituale e che si era sempre dimostrato molto attento e solerte nell'esecuzione dei compiti che gli venivano affidati, giunto ad una età matura passata quasi interamente in preghiera, sentì bussare un giorno alla sua cella.
Aprì, e trovò un novizio che, dopo un breve inchino (omaggio alla sua anzianità), ma con il sorriso sulle labbra (omaggio alla propria giovanile arroganza) gli comunicò che il maestro gli ordinava di rendere conto, alla fine di ogni mese, di ogni volta che avesse mancato alla sua preghiera giornaliera; e che doveva dare questa comunicazione a un altro novizio, arrivato da tanto poco che il monaco non lo conosceva nemmeno.
Il monaco chinò il capo e tacque, ma provò una forte ribellione e una rabbia quasi incontenibile. Ma la lunga pratica del silenzio e della pazienza ebbero il sopravvento, e si concesse qualche tempo di meditazione prima di esprimere le sue emozioni.
Il giorno dopo, uscito nel chiostro per le sue orazioni (che era uso fare passeggiando assorto in esse) si accorse di uno strano fenomeno: non ricordava più le parole delle preghiere che faceva ogni giorno da decenni. E si disse: "Ecco, il fatto stesso di dover fare ciò che volevo fare, diventa un disturbo e un impedimento." E la sua rabbia aumentò.
Il caso volle (ma il caso, si sa non esiste) che il suo maestro passasse di lì in quel momento di smarrimento, di vuoto mentale, di dimenticanza e di rabbia; il monaco non poté fare a meno di avvicinarsi a lui e con rispetto, ma col tumulto nel cuore, lo apostrofò:
- "Maestro, mi hai fatto ordinare da un novizio di far sapere a uno sconosciuto del mio incontro quotidiano con Dio; è una cosa privata, è una cosa che riguarda solo Lui e me e alla quale, tu lo sai, io non manco mai da anni, perché quella preghiera è il mio conforto, il mio luogo d'incontro col Padre. Perché hai voluto ferirmi? Mi sento come uno sposo che, innamorato perso della sposa, la desidera appassionatamente e ogni notte va da lei per esserne accolto teneramente, e che si vede ordinare di farlo perché si tratta di un dovere coniugale! La dolce tenerezza diventa la fredda obbedienza a un ordine superiore! Un ordine a me, che non ne avevo certo bisogno!"
Il maestro ascoltò con viso serio e attento.
- "Se ciò che vuoi fare con piacere è esattamente ciò che devi fare, perché non sopporti che ti si chieda di renderne conto?"
- "Perché la mia libertà di amare diventa obbligo di amare chi altri vuole, e perde di intensità."
- "E al contrario la tua libertà, quella che il tuo amore quotidiano ha prodotto, non consiste proprio nel fare ciò che ami appassionatamente fare e che, se non lo amassi, dovresti fare per obbligo? La tua libertà è nel tuo amore, e ora lo sai. Chi ama può dimenticare la maniera di dimostrarlo, come tu dimentichi le parole della preghiera, ma se è sincero, prega vivendo ogni momento la sua stessa vita e rimproverandosi per le sue dimenticanze.
Sei libero perché ami, e per quanto riguarda me, puoi lasciare questo luogo e andare a predicare libertà nel mondo."
Il maestro si allontanò, ma - fatti alcuni passi - si voltò e aggiunse: "Ma non dimenticare di notificare le tue dimenticanze al novizio ogni fine mese..."
- Lo farò - rispose il monaco - perché non ho più maestri da ora, ma sono diventato il servitore dei novizi... a loro devo rendere conto!"



giovedì 6 aprile 2017

Under costriction

La terribile notizia della ragazza anoressica morta di fame, vegliata per giorni dalla madre attonita, e poi da lei messa in un trolley ed abbandonata, è amaro spunto per alcune riflessioni.
Un madre che non riesce a nutrire è una madre annullata: espletata la sua funzione (automatica) di genitrice, fallisce totalmente quella di nutrice. Perché?
Nell'anoressia, chi ne soffre vive un rapporto ambivalente con la madre: se ne accetta il nutrimento (affettivo più che alimentare, certo), lo percepisce come "velenoso", e quindi lo rifiuta; come rifiuta la propria stessa esistenza non riconoscendosi persino nella propria immagine riflessa: nello specchio vede la madre.
E tuttavia, non avendo altro nutrimento che quello tossico, è fatale che l'esito sia letale, per avvelenamento o per fame. Uccidersi è l'unico modo di uccidere la madre e salvarsi da lei.
Questa madre che non si perdona, compie un gesto riparatore: mette la figlia in posizione fetale e la incorpora in un utero simbolico, poi l'abbandona e fugge, spaventata della sua stessa azione.
Non intendo con questo esaminare il fatto con piglio analitico (o peggio psico-analitico), ma con un approccio simbolico, o per meglio dire, analogico.
Se questa madre fosse la metafora di questo mondo, e se l'umanità ne fosse figlia? Se non potessimo ormai scegliere che tra il veleno e la fame? Se la via di fuga unica che riusciamo ad immaginare fosse una regressione all'utero di questa madre, ma solo post mortem? Se l'umanità stesse facendo del tutto per uccidersi al fine di uccidere la madre avvelenatrice con la quale si è identificata finora, non conoscendo altri metodi?
Propongo una riflessione complessiva sulle possibili vie alternative. Se non se ne trovassero, auspico che la riflessione risulti guaritrice e che torni un sano appetito.

PS: in tutto questo, il padre dov'è?


Uno strumento utile per regredire


mercoledì 5 aprile 2017

Piena dis-occupazione

E se tutti quelli che non trovano lavoro e che hanno persino smesso di cercarlo si mettessero a lavorare gratis? Non avrebbero niente da perderci, occuperebbero il tempo che li annoia, sceglierebbero certo qualcosa che a loro piace fare e che sanno fare bene.
Sconvolgerebbero le regole... pensandoci su, forse commetterebbero anche un reato perché lavorando in libertà non avrebbe senso chiedere una licenza o aprire una partita IVA o pagare le tasse, dato che non guadagnano niente... e forse farebbero arrabbiare quelli che per fare lo stesso lavoro chiedono di essere pagati, certo.
Se ricevessero in cambio da qualcuno un piccolo dono, magari delle uova come si faceva una volta, o una gallina, dovrebbero dichiararla al fisco? Chiedere a un commercialista, non lo so.
Di colpo però, una cosa così piccola, semplice e banale sconvolgerebbe ogni regola economica e obbligherebbe a trovare un nuovo modo di stare insieme.
Pensate al disagio di chi deve chiedere una prestazione, che so, una riparazione delle scarpe rotte a uno che non chiede niente in cambio... non sentirebbe il desiderio spontaneo di restituire in qualche modo il favore? e non modificherebbe con ciò la base stessa della relazione umana col ciabattino?
Non sarebbe costretto ad apprezzarne il lavoro come opera umana invece di sentire il diritto di pretendere che il dover pagare gli attribuisce? "Lavoro, guadagno, pago, pretendo!" diceva una volta la macchietta del commendatore meneghino tronfio e benestante. Ma se non devi pagare, non puoi pretendere; con ciò non hai più diritti, e sei costretto ad apprezzare l'opera di un altro come necessaria a te, e apprezzarla come dono spontaneo che ti viene fatto, una benedizione!
E così via... basta divertirsi a considerare le conseguenze di questo gesto rivoluzionario e pericolosissimo per le sorti di questa società: si va molto lontano.
Se non avete niente da fare perché manca il lavoro retribuito (il lavoro in sé, quello vero perché utile, non manca mai, però.), fate gratis il vostro lavoro. Il vostro, non quello che vi pagano e che siete costretti a fare perché è l'unico che pagano, quello che non serve a niente, e a nessuno tranne che a chi vi paga.
Fate gratis il vostro lavoro, ma fatelo in autonomia, non "sotto padrone". Abbiamo i padroni che ci scegliamo, e se smettiamo di eleggerne a tale rango, cominceremo forse a essere padroni di noi stessi.
Ma questo - forse - è un altro discorso.

lunedì 20 marzo 2017

La solitudine dell'escursionista

Chiunque abbia un poco di esperienza di escursioni in montagna, saprà come la dura esperienza consigli di adottare delle apposite tecniche di ascesa.
Zaino (leggero, con l'indispensabile nutrimento e l'acqua) in spalla, un bastone da battere in terra per spaventare i serpenti, dotato un gancio in cima per aggrapparsi a qualche appiglio quando il piede scivolasse. Ma soprattutto, il passo: regolare, non troppo veloce, non troppo lento, ritmato e mai variato.
Lo sguardo fisso verso l'alto (ma avendo una buona visione laterale), sia in senso fisco che in senso metafisico. E si va, avendo in animo una meta. Una delle mie preferite era il Pozzo delle Nevi. Che si trova molto in alto, ma apre una bocca che penetra nelle profondità più inaspettate.
Di solito, l'escursionista ama andare da solo, specie se è nella sua natura; oppure in compagnia di compagni esperti. In montagna, si saluta con cordialità chiunque si incontri, e talvolta capita che con alcuni si vada nella stessa direzione. E allora, il solitario, l'Afrad, trova compagnia silenziosa e confortante.
Capita (a me è capitato) di incontrare degli amici a valle, venuti per una vacanza breve. Un gruppo al quale, parlando, può accadere che si racconti l'intenzione di salire al Pozzo la mattina seguente.
Certo alcuni degli amici diranno: "Ah, veniamo anche noi!", mentre altri diranno: "Ah, io no! sono qui per riposarmi e mangiare bene!".
Il solitario escursionista non sa trarsi d'impaccio, e si impegna ad accompagnare su impervi viottoli i volenterosi, suggerendo loro di attrezzarsi in modo adeguato.
Al mattino presto, all'alba, preso appena il primo caffè, si avanza.
L'escursionista volenteroso e inesperto ha portato la macchina fotografica; si ferma ad osservare i paesaggi con commenti di meraviglia estatica; li indica ai suoi compagni, ne pretende lo stupore. Poi, avanzando scopre un cespuglio di rovi con le more: si ferma a raccoglierne, le offre agli amici, commenta..., in quota si trovano persino i lamponi!  poi, dopo appena un'ora si dice stanco, si deve riposare e bere un po' d'acqua; e un'ora dopo constata quanto l'aria di montagna metta appetito e chiede di fermarsi per mangiare un panino con i salumi del luogo che sono così buoni, specie con quell'aria frizzante...
Poi si guarda intorno soddisfatto dell'esperienza. E una attimo dopo si sgomenta: dov'è finito l'escursionista esperto al quale si era affidato come guida? Fuor di portata di vista e di voce. Ché lui ha proseguito con il suo passo costante, lo sguardo verso l'alto, l'intenzione verso la meta, consapevole che la rottura di ritmo lo avrebbe sfiancato, fisicamente e moralmente, e non  sarebbe mai arrivato al Pozzo. Là dove, solo là, intendeva riposare, mangiare e bere qualcosa, osservare, bearsi del panorama e dell'aria, e della luce, prima del ritorno rilassato e soddisfatto.
Non era uno che si guardava indietro, e lasciava che ognuno scegliesse cosa fosse meglio per sé; così, al Pozzo era giunto solo. Un solitario viandante, come era nella sua natura di Afrad.
Degli altri compagni sapeva che li avrebbe incontrati se fosse tornato a valle lungo lo stesso sentiero, stremati e forse spaventati, ché il tempo passa e all'imbrunire il cammino in montagna è pericoloso. Il buio, lì, giunge improvviso.
Ma sarebbe tornato indietro? Per ogni escursionista solitario vi è - sempre - un'ultima escursione.

L'ingresso naturale del Pozzo della Neve (di uno di loro...)

mercoledì 15 marzo 2017

Reazioni vitali del terzo tipo

Gli antichi dicevano che la vita è la capacità di reagire.
Se fosse possibile "costruire" un organismo come si fa con una macchina, si tratterebbe poi di metterlo in moto, una volta che tutti gli organi fossero compiuti.
Allora si imprimerebbe una forza in un determinato punto attivando una funzione e un automatismo.
Gli organismi, maxime quello umano, sono fondati sulla dualità e - si dice - sull'alternanza delle funzioni.
Dunque imprimendo una forza iniziale di grande potenza su, poniamo, il ramo simpatico del sistema neurovegetativo (quello che sostiene le funzioni vitali oltre la volontarietà), si genererebbe un eccesso in quella polarità della funzione vegetativa complessiva.
Tale eccesso, raggiunto il proprio limite (come alcune macchine hanno il limitatore di velocità, così gli organismo hanno dei sensori di eccesso), cadrebbe precipitosamente avendo innescato la polarità opposta (quella parasimpatica) a compensazione riequilibrante dell'eccesso iniziale.
La crescita della parasimpaticotonia fino all'eccesso, genererebbe di nuovo l'attivazione della polarità opposta, quella simpatica, in funzione equilibrante, e così via.
Questo equilibrio instabile, frutto di alternanza di polarità e della pulsazione che ne deriva, è la vita.
Il meccanismo è un automatismo, la cui durata è quella che è; quella che la forza cinetica di reazione a se stessi consente, e che va progressivamente esaurendosi, in assenza del ripetersi di quell'impulso iniziale che ha generato l'automatismo.
Immaginando invece, (ma solo immaginando ché non è mai stato possibile) che l'impulso possa ripetersi costantemente e che quindi la reazione organica non sia più frutto dell'automatismo insito nel suo funzionamento, ma sia risposta alla forza di una potente impulso esterno, ecco che la vita diventerebbe Vita.
Immaginando questa assurdità, si assisterebbe forse a un superlavoro dell'organismo, che ne muterebbe il metabolismo e potrebbe affaticare alcuni organi deputati alla trasformazione dell'energia in materia e viceversa, come ad esempio cuore e fegato. Ma ciò non sarebbe una malattia, ma una guarigione, o meglio una trasformazione... perché l'organismo che è alimentato dalla Vita non è lo stesso organismo che è alimentato dalla vita meramente organica ed automatica.
L'affaticamento dell'organismo intero, nella sua unità, dovrebbe essere ampiamente lenito (o almeno reso possibile) da un lento adattamento di esso al superlavoro, a una sorta di allenamento.
Quel che ne risulterebbe sarebbe una forma Vivente molto meno legata all'organico, alla carnalità e alla tirannia di essi, un essere davvero libero.

Antica Madre dormiente


sabato 11 marzo 2017

Nova salus

Come mi è capitato di far notare più di una volta, si riscontra sia in ambito psicologico che in ambito medico una ridotta risposta di molti soggetti ai trattamenti.
In alcuni casi ho sentito affermare da operatori sanitari di lunga esperienza che "la gente non guarisce più". E' una sensazione comune a molti clinici con una carriera superiore ai vent'anni.
La ragione è che l'uomo è cambiato, mentre i parametri medici che lo descrivono non si sono ancora adeguati. Esistono degli umani che sono evoluti non tanto nella loro natura organica e quindi somato-psico-energetica, quanto nella modalità funzionale, il che significa metabolica.
Le cure, o gli accorgimenti, o i consigli esperti di ordine salutistico, risultano per quanti si sono incamminati verso la qualità evoluta dell'essere umani, inefficaci e persino, non troppo raramente, nocivi o aggravanti eventuali patologie, perché tendono a farli permanere nella vecchia condizione mentre evolvono! Il che equivale a porre un peso sulla testa di un bambino per impedirgli di crescere troppo... solo perché lo si ritiene patologico e non si vede che la nuova generazione sarà alta mediamente due metri.
Chi voglia, tra i medici e gli psicologi, indagare sulla natura umana per portarle giovamento, si trova dunque a dover decidere quale tipologia di individui intende studiare e conoscere profondamente, perché la vecchia umanità è già ben conosciuta e parametrizzata, e si tratta quindi di stabilire quale approccio le sia più giovevole tra le migliaia disponibili e spesso tra loro in conflitto; mentre la nuova umanità è sconosciuta anche a chi ne fa parte, e quindi genera un ambito di conoscenza del tutto nuovo, il cui approccio è globale (non uso la parola "olistico" per i significati pseudo esoterici o esotici che la cultura gli ha attribuito); globale significa che il dettaglio non è più significativo, l'analisi di esso è del tutto inutile e porta anzi fuori strada; globale significa che la dimensione spirituale dell'uomo (quella vera, non quella sentimentale!) sta prepotentemente entrando a far parte della sua interezza, come il sangue che scorre nelle vene. Questa nuova dimensione non può più essere colta se non con la Conoscenza Globale, che appartiene in nuce all'uomo nuovo, ma è ignota all'uomo vecchio.
Dunque è bene che chi si occupa di salute (degli altri) impari innanzitutto a riconoscere la vera qualità di chi sta curando, se appartenga alla vecchia o alla nuova umanità; e che non tenti ostinatamente (la buona volontà finisce per diventare a volte arroganza) di curare con i vecchi parametri diagnostici e i vecchi strumenti l'uomo nuovo.
E' di recente acquisizione la statistica che vede (almeno in Italia) la drastica riduzione delle nascite e la conseguente aumentata quantità di vecchi: ciò corrisponde al fatto che l'uomo vecchio è, oggi, ancora in netta e drastica, crescente maggioranza: si tratta di quell'umanità che va a terminare senza riprodursi perpetuandosi; mentre l'umanità nuova, nascente emerge da questi flutti oscuri ancora con difficoltà e fatica, in numeri estremamente esigui: ma è questa l'umanità che cresce e si moltiplicherà, ed è bene pore attenzione ad essa e sostenerla nella sua crescita, come si fa con in bambini che gli adulti proteggono con amore.
In alcuni uomini della vecchia specie, il seme dell'uomo nuovo è stato gettato alcuni decenni fa, e potrebbe in questo momento germogliare. Chi ne avesse percezione, farà bene a considerarlo e a considerarsi con occhi nuovi.

Per chi voglia, faremo riferimento a questo nel nostro prossimo incontro del 19 marzo.



domenica 26 febbraio 2017

Conoscenza, Cultura...

Nell'Antichità vi erano Centri in cui si praticava e si trasmetteva la Conoscenza.
Man mano che essa si estendeva agli allievi, il Centro cresceva di fama e diveniva un Polo di attrazione per i saggi di ogni parte del mondo che vi affluivano. Saggio era infatti colui che ricercava la Conoscenza, Maestro chi la possedeva già.
Alcuni, poi, si allontanarono dal loro Centro di origine e credettero che la Conoscenza ricevuta fosse diventata proprietà personale, così che ritennero di poterne fare ciò che volevano.
Così crearono altri centri, in cui insegnavano ciò che avevano appreso facendo di ciò una professione.
Da quel momento nacque la Cultura.
Dunque, la Conoscenza è viva, è anzi la vita stessa operante conosciuta mentre opera, mentre la Cultura è la somma delle esperienze che, chi è stato vissuto dalla Conoscenza, ha trascritto a memoria di quegli eventi, ormai passati, e morti.
La Conoscenza  non muore, perché la Vita in sé non lo fa; la Cultura è già morta da tempo.
La Conoscenza trasforma l'uomo, la Cultura è dall'uomo trasformata.
Così la Conoscenza non può essere venduta, e la Cultura non può che essere venduta. La Conoscenza trasmette Vita, la Cultura trasmette denaro.
Quelli che vengono alla Conoscenza per strapparle qualcosa da rivendere sul mercato della Cultura, devono sapere che stanno rivendendo vilmente la Vita che era stata loro donata, e che la vita venduta non si rigenera, e si esaurisce presto nella sterilità.


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giovedì 23 febbraio 2017

Padri

Un tale litigava continuamente con il padre, col quale era sempre in conflitto. Diceva di odiarlo.
In realtà si amavano, ma è nell'istinto animale dei mammiferi (umani e no) combattere per ottenere il potere sul branco, e il primo avversario è proprio il padre capobranco. Il fine è prenderne il posto, essere lui, non nella sua identità (che si nega), ma nella sua funzione.
D'altronde questo è il sentimento che, nell'uomo, si è sublimato in quello religioso: il più grande dei capobranco universali è Dio, e l'uomo vuol essere Lui, cerca l'identificazione con Lui.
A quel tale che odiava il padre, il padre morì, e così il conflitto che lo agitava cessò. Ne prese naturalmente il posto. E la pace scese nel suo cuore.
Prese a riflettere: per ottenere questa pace non avrebbe potuto uccidere il padre senza aspettare tanto? Certo, avrebbe potuto, ma confrontarsi con lui era troppo pericoloso, perché era forte; e, diventato vecchio, non era più un grande avversario, non valeva la pena, bastava attendere che morisse.
D'altronde questo è il sentimento che, nell'uomo, produce l'agnosticismo (il rimuovere del tutto l'esistenza di un padre) o l'ateismo (il negare l'esistenza del padre o della sua potenza).
Quel tale continuò a riflettere, e si disse che, sempre, per eliminare un conflitto e pacificarsi non vi è che un mezzo: la fine fisica dell'elemento con il quale si entra in conflitto.
D'altronde questo è il sentimento che, nell'uomo, genera ogni guerra, ogni lotta, ogni violenza, con la scusa che sta cercando e producendo pace.
Perché il conflitto è nell'uomo, in quanto la scintilla che lo tiene costantemente in vita, è come l'effetto dello sfregamento di due pietre una sull'altra. Così l'uomo non comprende che eliminare fisicamente, o rimuovere ignorandone volutamente l'esistenza, ciò con cui è in conflitto, è un suicidio; una pietra da sola non produce scintille (ricordate il koan "qual è il suono di una mano sola?")
Il Padre Archetipico non muore, non può. Né muoiono i Fratelli. Perché a ogni padre che muore si sostituisce un figlio che ne assume il potere, e i suoi figli.
La verità è che uccidere il Padre è possibile solo uccidendo se stessi; e molti usano l'intera propria vita per farlo.

Il Deserto dei Padri


martedì 21 febbraio 2017

Sapienza, Conoscenza...

La Sapienza è di chi sa che esiste l'Albero del Pane, in lontane lande, e ne serba la descrizione e l'immagine da altri riportata.
La Conoscenza è di chi sa quali sono le condizioni perché l'Albero del Pane possa svilupparsi, le ri-produce, lo fa nascere, VIVERE, e lo rende parte della nostra vita qui ed ora.
Sapere è indagare ciò che non si può vivere; Conoscere è vivere TUTTO senza indagare.
l'Albero del Pane


lunedì 13 febbraio 2017

Bacchette e bacchettoni

Quando la ragione non riesce più a trovare mezzi o strategie per superare un problema, alcuni ricorrono alla richiesta di miracoli presso i santi che hanno dimostrato di averne fatti di più in passato, o alla magia.
Comunque ricorrono alla richiesta di un intervento esterno e capace di sovvertire le leggi della natura o della logica o della causalità.
E' strano che nessuno pensi di diventare santo o mago per ottenere quello che, naturalmente o razionalmente, sarebbe impossibile ottenere. Forse la cosa che si ritiene più impossibile tra tutte è proprio diventare santi o maghi... perché è faticoso.
Quello che non si sa, e che quindi induce all'errore, è che sia i miracoli che le "magie" sono interventi naturali e nient'affatto soprannaturali, perché sono azioni effettuate sulle cose della natura e sul loro normale andamento; e che la possibilità che eventi altrimenti irrealizzabili si verifichino è - casomai - dovuta all'interazione forte (espressione - si noti bene - tratta dalla fisica quantistica) tra l'oggetto dell'operazione e chi la richiede.
Quindi, anche il santo che volesse favorirvi, dovrebbe passare attraverso di voi per cambiare le carte in tavola e a dar luogo all'inaspettato; e se voi non foste nella condizione adatta, non potrebbe farlo. Orbene, chi chiede a un terzo, senza operare su se stesso, non è nella condizione adatta.
Per questo molti miracoli che, se solo  le persone fossero - come si dice - "allineate", accadrebbero naturalmente senza alcun intervento, non accadono.
Non ci sono scuole di miracoli, forse perché chi li fa non intende disperdere il proprio potere insegnandolo, oppure, meno maliziosamente, perché se si desse a qualcuno il potere di farne, quegli lo userebbe per far scoppiare bombe - miracolosamente - senza detonatore...
Però esistono scuole che insegnano ad essere "allineati". Non cercano allievi, ma ci sono, a volte e per fortuna raramente, allievi che le cercano.


Campionario di bacchette magiche


giovedì 2 febbraio 2017

Carta da musica

Un imprenditore, illuminato, brillante e animato dall'utopia di "fare del marketing una scienza umanistica", mi spiegava come "il modo attuale di fare impresa non funziona più, le esigenze del mercato sono totalmente cambiate, ma gli strumenti a disposizione sono ancora quelli del vecchio modo di intraprendere; così le nuove imprese rischiano di non decollare, strozzate da regole inutili etc."
Mi illustrava come sia necessario costruire un nuovo modo, e lo faceva utilizzando una metafora: "Come la musica è da sempre scritta sul pentagramma, così la progettazione di una nuova impresa è scritta su una sorta di canovaccio: ebbene oggi occorre inventare una nuova carta da musica, un diverso pentagramma".
Questa sua calorosa affermazione, che sembrava infiammarlo di entusiasmo, ha suscitato in me delle riflessioni sul senso di "progetto", cosa di cui (casualmente?) scrivevo qui nei due o tre articoli precedenti.
E' avere il giusto pentagramma che consente di scrivere grande musica? O esiste già una musica che qualcuno, udendola e rimanendone affascinato, desidera poter riprodurre? Se è vera questa seconda ipotesi, questo qualcuno potrà desiderare inventare un modo per trascriverla al fine di tramandarla e di poterla eseguire ogni volta lo si desideri.
Allora inventerà un pentagramma e attribuirà a segni grafici quali le palline un valore convenzionale che significherà un suono o l'altro a seconda di dove, sul pentagramma, vengano collocate.
Così, è necessario che la "musica" esista già, perché l'invenzione di un "pentagramma" abbia senso.
E credere che basti inventare un nuovo schema per produrre musica diversa è forse illusorio.
Fuor di metafora: per codificare delle nuove regole dello stare insieme tra uomini, occorre che sia stato prima realizzato l'uomo nuovo; e questo non sarà certo fatto dall'ever scritto, uomini vecchi, regole spacciate per nuove, ma che non possono che essere vecchie, per uomini che non esistono ancora e che i vecchi non hanno la minima idea di come siano.
Ma fare impresa non è fare l'Uomo Nuovo, ma fare soldi.
All'amico imprenditore questa osservazione non è piaciuta, ma mi vuole bene e mi ha perdonato.

"Carta da musica", nient'altro che pane


martedì 31 gennaio 2017

Fare da grande

Ai bambini si chiede, fatalmente: "Che cosa vuoi fare da grande?". E si ricevono risposte, di solito, assai improbabili.
Crescendo, quel bambino sceglierà dei modelli e il suo intento, il suo voler fare, diventerà il suo voler essere.
Più avanti, quando farà ciò che sarà costretto a fare e sarà quel che sarà costretto a non essere, non gli resterà altro che stabilire ciò che vorrà sembrare.
Quindi comincerà a fare cose che gli consentiranno di fingere con se stesso di essere quel che si sforzerà di sembrare agli altri.
L'inganno è compiuto, e la condanna alla menzogna perenne è così comminata: questa pena, per un reato mai compiuto, si chiama "personalità", o "falso Io", o "ideale dell'Io": è un tiranno che non consente altro che di sembrare ed ingannarsi, perché ogni tentativo di essere quel che si è sarebbe un tradimento verso le aspettative degli altri, ai quali si apparirebbe diversi, tradendo le loro aspettative. La punizione? "Mi hai deluso, allora non ti amo più!".

In questa prigione resta impossibile dare risposta a una domanda che ci si smette allora di fare: chi sono? Perché la risposta a questa domanda potrebbe essere data solo a posteriori, quando si fosse diventati ciò che si doveva essere, e lo si constatasse.
Essere, infatti, non è cosa che può piegarsi al volere, ma è la progressiva manifestazione di quel che si è fin dall'origine, e che la vita dovrebbe consentire di attuare.
Ma non si è mai diventati altro che quello che si voleva sembrare. Si muore non avendo mai potuto scoprire chi si fosse realmente.
E questa non è una condizione definibile "umana". Umana è solo la ricerca totale della propria Essenza.

Un'Essenza speciale