Ai tempi di Gesù, quando ad Alessandria d’Egitto si andavano
fondendo le culture egizia, mediorientale e greco-latina, esisteva una comunità
monastica di uomini e donne, detti i ‘Terapeuti’, di cui si sono perse le
tracce storiche e rimane solo qualche sparuta e frammentaria testimonianza.
Per Platone, un ‘terapeuta’ è uno che ‘ha cura’ del corpo e
dell’anima: un tessitore di abiti, o un cuoco; ma è anche un ‘servitore’ delle
cose sacre. Marc’Aurelio ritiene che la ‘therapia’ sia l’arte di conservarsi
puro da ogni passione, al fine di “essere attento alla sola divinità che abita
in sé e circondarla di un culto sincero”.
In quel tempo, il ‘terapeuta’ è un semplice tessitore, o un
cuoco, che ha però una speciale consapevolezza che usa per aver cura degli dèi
e delle ‘parole’ che essi dicono alla sua anima.
Dèi che sono manifestazioni
dell’Uno (come era in Egitto), e rappresentazioni di verità assolute
(ontologiche) cui il sapiente si riferisce nell’orientarsi lungo il percorso delle
‘concatenazioni’.
Il ‘desiderio’ è uno strumento basilare della funzione
terapeutica: su di esso il sapiente vigila, al fine di mantenerlo sempre vivo e
di orientarlo costantemente verso la meta che si è prefissa: ‘questa cura etica
può fare di lui un essere felice, sano e semplice (non duale, non diviso in se
stesso), vale a dire un saggio.’
Il ‘terapeuta’ diventa allora un essere ‘che
sa pregare’ per la salute dell’altro, ossia sa richiamare su di lui la presenza
e l’energia del Vivente, che è il solo a poter guarire ogni malattia e con il
quale egli coopera.
Il ‘terapeuta’ non guarisce, egli ‘ha cura’: è il Vivente
che cura e guarisce; il ‘terapeuta’ ha soltanto il compito di mettere il malato
nelle migliori condizioni affinché il Vivente agisca e la guarigione avvenga.
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